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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2014 alle ore 07:18.
L'ultima modifica è del 19 novembre 2014 alle ore 08:08.

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Già il Codice di Hammurabi del secondo millennio avanti Cristo aveva dato un nome a quello che sta accadendo oggi a Gerusalemme: legge del taglione. Cioè occhio per occhio. La strage nella sinagoga della parte occidentale, ebraica, della città è solo l'ultimo episodio e il più sanguinoso in ordine di tempo, di uno scontro che gli esperti sono incerti se chiamare o no terza Intifada.

Comunque la si definisca, è un'escalation estremamente pericolosa di violenza nazionalistica fra israeliani e palestinesi, etnica fra ebrei israeliani e arabi palestinesi, religiosa fra ebrei e musulmani: nella sua potenzialità distruttiva e per le conseguenze possibili, perfino peggiore della lunga guerra estiva nella striscia di Gaza. Soprattutto perché il campo di battaglia è Gerusalemme, considerata capitale e città santa per troppi popoli e troppe fedi.
E ancor più perché, prima di essere uno scontro fra Stato d'Israele e Autorità Palestinese o fra Israele e Hamas, è un conflitto combattuto dalla gente. Prima del soldato e del miliziano, soggetti tradizionali dei conflitti, il nemico è il passante, l'automobilista, la gente del quartiere accanto, gli studenti che escono dalle scuole nelle quali si demonizza la Storia dell'altro.
I prodromi dell'aggressione terroristica di ieri alla sinagoga si perdono nella memoria della breve cronaca dell'ultimo mese: il rabbino che senza consultarsi con le autorità era provocatoriamente andato fra le moschee della spianata, nella città vecchia; il palestinese salito sulla sua auto che ha investito cittadini israeliani a una fermata del tram; il poliziotto israeliano che col fucile di precisione spara senza motivo in testa al ragazzino palestinese; il padre di famiglia palestinese che accoltella una ragazza israeliana.

Lunedì, il giorno prima del massacro alla sinagoga, nell'autorimessa dei mezzi pubblici di Gerusalemme Ovest, ebraica, un autista palestinese è stato trovato impiccato sul suo autobus. Gli israeliani dicono suicidio, gli arabi dicono linciaggio. Non è un tentativo di giustificare l'aggressione di ieri. È solo un'aggiunta alla cronologia che sta portando Gerusalemme alla catastrofe. Il giorno prima Hamas invita gli arabi di Gerusalemme a vendicarsi, e il giorno dopo la ritorsione accade. Forse dietro gli attentati esistono una direzione occulta e una logistica. Ma non sono più così necessarie per accendere questi robot del terrorismo fai da te, o terrorismo della porta accanto: le definizioni giornalisticamente "sexy" non mancano.
Non c'è nulla che li possa fermare a meno che non si presìdi ogni angolo di Gerusalemme; e lo Shin Bet, i servizi segreti interni, non mettano un agente in ogni casa palestinese e in ogni colonia ebraica. Per quanto si odino e vivano divisi, in un territorio così piccolo israeliani e palestinesi comunque condividono una buona parte della loro quotidianità. Per quanti muri si elevino e leggi sullo "Stato-Nazione degli Ebrei" si vogliano fare per snaturare l'essenza democratica del Paese, il 20% della popolazione d'Israele è composto da arabi: arabi, cioè palestinesi d'Israele, in aggiunta ai palestinesi dei Territori occupati.
Il governo israeliano che annuncia nuove colonie nella parte araba della città e Hamas che esorta gli arabi di Gerusalemme alla vendetta permanente, sono solo i facili istigatori della vicenda. È penoso leggere i commenti dei leader politici israeliani e palestinesi, di destra e di sinistra, laici e religiosi: nessuno che tenti di ergersi al di sopra della mischia, preoccupato di compiacere le viscere dei loro elettori.

Pensate al comportamento di Hamas che continua a buttare vite palestinesi nel calderone della sua guerra senza possibilità di vittoria; o a quello di Israele che ogni volta rade al suolo le case delle famiglie dei terroristi: sa che non serve a nulla, che rende solo l'odio più forte, ma continua a farlo ugualmente, per spirito di faida e povertà di idee più originali del consueto uso della forza.
Come ha detto una volta a questo giornale il filosofo israeliano Avishai Margalit, che qualche anno fa è andato a insegnare a Princeton e da lì non è più tornato a Gerusalemme, in questa storia la politica è scomparsa da tempo. C'è solo lo scontro etnico e religioso, la lotta fra due tribù nazionali che a oltre cento anni dal loro manifestarsi non hanno ancora trovato la soluzione per una modica convivenza.

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