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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2014 alle ore 13:55.
L'ultima modifica è del 07 dicembre 2014 alle ore 14:26.

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Quella di Massimo Carminati & soci è un modello di «impresa mafiosa» moderno, efficiente e flessibile. La caratteristica evidente di «Mafia capitale» come azienda criminale complessa e diversificata, ma anche improntata ad alcuni princìpi basilari dell’economia – come la stabilità e la riduzione del rischio –, emerge con chiarezza dalle carte giudiziarie.

E fa impressione vedere come nell’informativa del Ros dei carabinieri, guidati dal generale Mario Parente, la definizione di «impresa mafiosa» sia un pilastro fondamentale per la costruzione dell’impianto accusatorio. La scommessa del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, si fonda dunque anche su questo.

Certo, il riconoscimento di una struttura associativa criminale e la capacità di intimidazione sono altri due elementi decisivi per la convalida dell’accusa di organizzazione mafiosa attribuita a Carminati e i suoi sodali.

Ma a rileggere le carte giudiziarie quello che colpisce di più è proprio quanto «Mafia capitale» sia e si comporti da impresa. Quasi un modello di azienda illecita, appunto, sempre presente o riconoscibile nell’analisi dei comportamenti dei protagonisti dell’inchiesta. «Ci si muove solo di guadagno compà...altre cose non interessano» è la frase ormai celebre dell’ex terrorista dei Nar. Carminati, secondo gli investigatori, non si muove in una logica personale, ma di sistema: è la sua capacità di aggregazione, ma anche di pianificare programmi di sviluppo e di affermazione di potere che non può prescindere da una dimensione economica rivelatasi, in realtà, più che strategica. A lui rispondono tra gli altri Salvatore Buzzi, boss delle cooperative; Agostino Gaglianone, per il settore «movimento terra»; Cristiano Guarnera (e altri) per l’immobiliare; Giuseppe Ietto per la ristorazione «senza dimenticare - dice l’informativa dell’Arma -. figure funzionali al riciclaggio dei proventi illeciti come Marco Iannilli». Carminati, dunque, diversifica il rischio per massimizzare il profitto. E, scrive il Ros, «rimprovera due sodali che non avevano controllato la stabilità economica dell’imprenditore a cui avevano affidato l’appalto: «Allora però la colpa è vostra che avete dato a uno oberato di buffi su buffi (“debiti” in dialetto romanesco, n.d.r.) l’appalto...l’appalto lo dai a uno che sta bene». Impeccabile, verrebbe da dire, in una logica imprenditoriale e finanziaria.

Nella holding di «Mafia capitale» ci sono anche - a rafforzare la sua capacità di potere, criminale e aziendale - le imprese a partecipazione mafiosa. Attenzione: non si tratta per forza di un mafioso che si associa con un prestanome. Il criminale «può associarsi a un altro imprenditore attraverso l’interposizione di un prestanome oppure in modo diretto ma non formalizzato costituendo una società di fatto». La conseguenza è «una relazione societaria che si fonda sulla parola - scrivono i Ros - senza alcun documento che attesti il rapporti di compartecipazione all’impresa». Per completare il quadro, tra imprenditore e mafios o «la gestione economica e tecnica è esercitata dal primo mentre le grandi scelte strategiche sono compiute di comune accordo con il mafioso o direttamente da quest’ultimo». La sintesi, a guardare tutto il quadro di «Mafia capitale», è che siamo oltre i canoni delle convenienze reciproche e della forza di intidimidazione dell’associazione mafiosa che inquina mercato e concorrenza. Carminati e soci erano potenti, senza nessun dubbio: pagavano e si arricchivano con il contesto politico, burocratico e imprenditoriale che li sosteneva, li assecondava o li subiva. Un’impresa mafiosa moderna, solida, sempre in utile e in crescita costante.

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