Il bilancio del 2014 ancora non è pubblico, ma si sa già che ci sarà ben poco di cui gioire. Per l'Atac di Roma sarà un altro anno, l'ennesimo, con il segno meno per almeno un centinaio di milioni nell'ultima riga dei conti. L'Atac è la più grande azienda di trasporto pubblico in Italia, ma a livello contabile è un pozzo senza fondo, una sorta di buco nero che inghiotte e consuma risorse milionarie. L'emblema palpabile e più significativo del disastro delle amministrazioni capitoline succedutesi negli ultimi anni.
Come definire se non un gigantesco gorgo nero un'azienda che ha cumulato oltre 1,2 miliardi di perdite nel periodo 2006-2013? Non c'è nessuna grande società del trasporto pubblico locale in Italia con risultati così cronicamente disastrosi. L'utile nell'ultimo decennio non si è mai visto. Il filo rosso delle perdite tra l'altro non ha fatto altro che aggravarsi. Nel 2010 un buco addirittura di 319 milioni, seguito dai 172 milioni di perdite del 2011 e dai 370 milioni di buco nel biennio 2012-2013. Uno stillicidio senza fine. Con costi scaricati sulla collettività. Nel 2010 Atac si era mangiata tutto il patrimonio e tre anni fa è stata ricapitalizzata per un miliardo. Vista l'evoluzione c'è da aspettarsi un'Atac di nuovo senza capitale a breve.
Dall'Atac si è visto passare di tutto: dallo scandalo della truffa dei biglietti falsi alla Parentopoli delle assunzioni facili. Solo la punta dell'iceberg di un sistema malato in profondità. Da Atac sono passate giunte di centrosinistra e centrodestra e una decina di amministratori delegati e consigli di amministrazione succedutesi senza che nulla cambiasse. Anzi. La situazione è andata peggiorando.
Basta sfogliare le relazioni dei collegi sindacali, una sorta di duro monito a cozzare contro un muro di gomma. Da anni i controllori dei bilanci mettono in guardia: ricavi troppo bassi e costi troppo elevati. Impossibile in queste condizioni chiudere senza perdite. Già i ricavi.
La truffa dei biglietti clonati ha distratto risorse ma il nodo gordiano è più profondo. L'ex assessore alla Mobilità, Guido Improta, cui Marino ha chiesto ieri le dimissioni, già annunciate dallo stesso Improta nei giorni scorsi, denunciava senza mezzi termini come l'evasione tariffaria fosse del 30-40%. Finisce così che strutturalmente i ricavi da biglietti valgano solo il 30% del miliardo circa di fatturato consolidato. Più di mezzo miliardo viene dal contributo pubblico del contratto di servizio con Comune e Regione. È vero che quei soldi spesso rimangono sulla carta come crediti perché la Regione (soprattutto) tarda a versare, ma è sempre una poderosa stampella pubblica. Nessuna azienda di trasporti in Italia riceve mezzo miliardo l'anno di sussidi pubblici. E nonostante ciò si sono cumulate perdite. Si poteva fare di più? Certo.
Ma l'ostacolo è quel pachiderma inamovibile dell'esercito di dipendenti cresciuti oltre misura negli anni. L'Atac infatti ha un organico di 12mila dipendenti che pesano sul bilancio per 550 milioni di euro. Tanti, pochi? Solo a titolo di esempio l'altra grande azienda di trasporto l'Atm di Milano ha 9mila dipendenti con un costo unitario inferiore del 20%. Ma tanta magnanimità se la sono concessi per primi i vertici dell'azienda romana. Basti pensare a uno degli amministratori delegati degli anni passati, Bertucci che, non contento della retribuzione (oltre 300mila euro) da ad, si fece approvare dal cda nel 2010 un contratto di consulenza in materia giuslavoristica da 219mila euro. Dovette intervenire il collegio sindacale per stoppare la maxi-consulenza. O a Gioacchino Gabbuti, passato da ad di Atac ad ad di Atac patrimonio che nel 2013 oltre al fisso di 350mila euro si è fatto riconoscere un premio da 245mila euro. Premio per cosa? Per aver guidato per anni il malato cronico di Atac senza successo?
Così funziona una municipalizzata. Vertici strapagati (solo ora con la nuova Giunta è stato messo un tetto da 200mila euro alle retribuzioni dei massimi dirigenti) e incapaci di affrontare le difficoltà in cui versa strutturalmente l'azienda romana; personale in eccesso e mal distribuito e continui casi di malagestio. Più volte i collegi sindacali sono intervenuti nel tentare di mettere un freno a ruberie varie. Come quella del 2011 sulla gara per i servizi di pulizia: un appalto da 95 milioni gonfiato di oltre il 30% rispetto ai valori sul mercato. O la denuncia sull'acquisto di mille dischi freni (7 milioni di euro) che in realtà costavano meno di 2 milioni. Per non parlare (siamo nel 2009) delle consulenze varie per oltre 20 milioni di euro a fronte di risorse interne per 12mila unità che costano di loro oltre 500 milioni l'anno. E ancora. Gli effetti di un derivato capestro (Us Cross border lease) stipulato nel 2003, definito “temerario” dai revisori dei conti e chiuso alla fine con una perdita per Atac di 28 milioni.
Sono solo alcuni dei casi palesi di malagestio in un poderoso cahier de doléances che contrassegna in tutti questi anni i verbali dei collegi sindacali. La politica (bipartisan prima con Veltroni poi con Alemanno) non ha fatto nulla per arginare la deriva di inefficienza e cattiva gestione di Atac, così come nessuno della decina di amministratori delegati e presidenti succedutesi in due lustri ha mai inciso sulla struttura di un'azienda che se fosse sul mercato sarebbe fallita molti anni fa.
Atac ha visto rinnovato l'affidamento del servizio pubblico al 2019. Ora Marino dopo aver licenziato il Cda vuole l'ingresso dei privati. Forse è troppo tardi. E poi quale privato si prenderebbe in mano un carrozzone che ha prodotto 1,2 miliardi di perdite negli ultimi otto anni? E quelle sono solo le perdite. Tra contributi pubblici e perdite Atac è costata ai romani 6,4 miliardi negli ultimi 10 anni. Un vero e proprio scempio pubblico.
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