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L’uomo che ha cambiato il calcio e il pioniere di Silicon…

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L’uomo che ha cambiato il calcio e il pioniere di Silicon Valley: così è nata la strana coppia Ferguson-Moritz

Quando Sir Alex Ferguson è diventato un calciatore professionista nei primi anni '60, guadagnava 16 sterline a settimana (l'equivalente di 300 sterline di oggi) per uno sport che rappresentava un pilastro nella vita della classe operaia inglese, ma senza la spettacolarità che ha oggi. Quando due anni fa l'allenatore del Manchester United si è ritirato, dopo aver contribuito a far vincere alla squadra 38 coppe in 26 anni, il suo salario è arrivato a 160mila sterline la settimana e il calcio è diventato la più importante forma di spettacolo al mondo. Il Manchester United è stato protagonista di quella trasformazione: la squadra più vincente nella più ricca delle league.

Ferguson viene ingaggiato nel 1986, l'anno di Crocodile Dundee, Chernobyl e la deregulation del Bing Bang dei mercati finanziari di Londra. Le sorti della squadra vacillavano e i giocatori avevano fama di alzare un po' troppo il gomito e non dare grandi risultati. Il patron era Martin Edwards, rampollo di una ricca industria di lavorazione delle carni di Manchester. Oggi il Manchester United è una s.p.a. quotata alla borsa di New York, con i Glazer della Florida come azionisti di maggioranza. Il suo valore commerciale è di circa 2,4 miliardi di sterline e i redditi previsti quest'anno dovrebbero raggiungere i 500 milioni di sterline. A gettare le fondamenta di questo successo commerciale è stato Ferguson, e la sua ossessione quasi patologica per il calcio - e le vittorie - è un case study di leadership. Non dovrebbe sorprendere più di tanto, quindi, che Ferguson, ancora in gamba a 73 anni, il viso rubizzo, abbia trovato una seconda chance come guru del business.

La nuova vita di Ferguson è cominciata un mattino di maggio 2013, nella sua casa di Wilmslow, nel Cheshire, a 25 minuti dall'Old Trafford, lo stadio del Manchester United. «Per la prima volta in quarant'anni potevo fare colazione con mia moglie ed era una cosa straordinaria» spiega Ferguson. «Prima ero sempre fuori alle 6.20 del mattino o giù di lì. Adesso ascolto le notizie. Dopo quasi cinquant'anni di matrimonio, non si parla granché, mi creda, ma il fatto di esserci è molto importante. La mia presenza è importante». Stava per ritirarsi. A maggio 2001 aveva annunciato che sarebbe rimasto sino alla fine della stagione seguente («una decisione tremenda» commenta ora), per poi cambiare idea pochi mesi dopo. Alla fine, decise di ritirarsi quando la moglie Cathy perse Bridget, sua sorella gemella e più stretta confidente. «Ho sempre detto alla stampa che non mi sarei ritirato, che avrei continuato fino a quando la salute me lo avrebbe permesso. Ma quando è morta la sorella di Cathy, è cambiato tutto perché mia moglie era sola, le mancava la sorella, e ho pensato che si era sacrificata tutta la vita per me, era venuto il momento che anch'io facessi qualcosa per lei» ha dichiarato.

Aveva incontrato la moglie a uno sciopero della fabbrica di macchine da scrivere Remington Rand, a Glasgow, durante il suo apprendistato, prima di dedicarsi completamente al calcio. «Lasciai l'ingegneria per giocare a tempo pieno con il Dunfermline, e sapevo di voler diventare allenatore, così mi sono preparato. Ho cominciato ad allenare a 23 anni, squadre giovanili perché non ne volevo sapere di riprendere ingegneria». Ammette di essere stato un padre e un marito molto assente: «Mia moglie era pronta ad accettare il sacrificio, era fantastica. So bene che non tutte le mogli sarebbero state disposte a farlo, ma lei ha capito la mia ossessione, ha capito perché dovevo farlo, perché ce l'avevo dentro, nel sangue, e non avevo scelta, non potevo fare altrimenti». Ma Ferguson insiste che l'ossessione di una vita cessò all'improvviso quando si ritirò. «Aspettavo quel momento e lo aspettavo perché pensavo a mio padre: si è ammalato di cancro una settimana dopo essere andato in pensione ed è morto nel giro di un anno e tre mesi».

Ferguson avrà anche lasciato il suo posto, ma ha evitato il destino dei grandi del passato come lo scozzese Bill Shankly, il più grande allenatore del Liverpool, che quando è andato in pensione si è sentito tagliato fuori dalla squadra, costretto a guardare le partite dagli spalti o a controllare i bambini che giocavano a cinque al parco. Ferguson, invece, fa parte del consiglio di amministrazione del Manchester United, tiene seminari per gli allenatori Uefa – l'organo che regola il calcio europeo – e fa opere di beneficenza per l'Unicef. Ha saputo costruirsi qualcosa che pochi altri allenatori sono riusciti a fare: una carriera al di fuori del calcio.

Ad aprile scorso, l'Harvard Business School lo ha ingaggiato come docente per i corsi di formazione manageriale. L'accordo a lungo temine prevede che Ferguson tenga qualche lezione l'anno agli studenti di diversi indirizzi, compreso quello di management avanzato che costa 78mila dollari per sei settimane di corso. Il giornale dell'università ha descritto Ferguson come «un condottiero del calcio» con «una vera prospettiva sul mondo». E come se non bastasse, Ferguson ha anche accettato di lavorare a un libro intitolato Leading (pubblicato da Hodder & Stoughton) in cui distilla la sua esperienza calcistica in una serie di lezioni di management. Inaspettatamente, lo affianca Sir Michael Moritz, ex-presidente della Sequoia Capital, una delle più importanti società di venture capital e uno dei più illustri investitori della Silicon Valley.

I due hanno intrapreso strade molto diverse: Moritz è nato a Cardiff e ha studiato a Oxford, per poi emigrare negli Usa e cominciare a lavorare come giornalista. Ma qualcosa in comune ce l'hanno: entrambi sono riusciti a valorizzare dei beni sottovalutati: il regno di Ferguson ha contribuito a trasformare il gigante dormiente del Manchester United in una delle squadre più ricche del mondo. E nel 1986, lo stesso anno in cui lo scozzese ha cominciato all'Old Trafford, Moritz ha fatto un passo altrettanto audace, è entrato nell'industria del venture capital nella Silicon Valley che muoveva i suoi primi passi.
Moritz non pretende di essere un esperto di calcio: «Sono un tifoso da poltrona, non certo uno sfegatato. Roy Keane mi definirebbe tifoseria da quattro soldi» si giustifica. Ma dopo aver scritto un libro su Lee Iacocca, che aveva risollevato la Chrysler negli anni Ottanta, e sul cofondatore della Apple, Steve Jobs, Moritz dichiara di «credere fermamente nel potere o nella capacità di un individuo di fare cose straordinarie senza avere un'organizzazione alle spalle».
Avendo visto nascere e morire tante società della Silicon Valley, era particolarmente interessato a due cose: come costruire e mantenere un'organizzazione vincente e come riuscire a farlo non solo per qualche anno, ma per decenni.

«Nella Silicon Valley, come saprete, le aziende possono prosperare per dieci anni, ma sono poche quelle che riescono a fiorire ad alti livelli per diversi decenni, e continuare ad avere successo», afferma Moritz. «E se a questo aggiungiamo un'altra sfida, ovvero fare grandi cose per diversi decenni sotto la stessa guida, non trovo molti esempi».
Arriva Ferguson. I due si conoscono otto anni fa, ma cominciano a collaborare solo dopo che lo scozzese ha lasciato il Manchester United. Per il primo incontro sul libro, si danno appuntamento a al Metropolitan Club di New York, sulla Quinta strada, e si bevono una bottiglia di Stag Leap sulla terrazza che si affaccia su Central Park. «Il vino rosso era il tema dei nostri incontri» scherza Moritz.
E l'uomo che si trova davanti, lo scozzese di Glasgow noto per i suoi modi diretti e le sue piazzate gridate alle orecchie dei giocatori, è molto diverso dall'immagine pubblica; Moritz rimane colpito dalla sua curiosità per gli argomenti più diversi, dalle corse di cavalli, al pianoforte, alla storia americana, in particolare il periodo della guerra civile. Pur essendo un cavallo vincente nel calcio, le simpatie di Ferguson andavano ai perdenti: «I sentimenti erano sempre per i Confederati che non avrebbero mai vinto».
Moritz si augura che questo libro possa servire al capo di un ospedale come al dirigente multinazionale. «La grandezza di Sir Alex è essere riuscito nella parte più difficile della leadership, ovvero applicarla alla vita di tutti i giorni. È lì che cadono quasi tutti in fallo, è difficile riuscirci».

Il libro rivela come i principi di leadership di Ferguson si siano radicalmente evoluti nel tempo. Lo scozzese dall'urlo facile, che ha lanciato una scarpa in faccia a Beckham, è consapevole di aver commesso degli errori e di aver cambiato strategia. «Mi dicevo sempre: Sono “io” l'allenatore del Manchester United, la squadra più importante del mondo – si aspettano che io faccia la cosa giusta». Ma ammette di essere stato un po' troppo duro, qualche volta. Ricorda quando ha lasciato fuori Bryan Robson, storico capitano del Manchester, alla FA Final Cup del 1994, in quella che sarebbe stata l'ultima partita di Robson. Ferguson non voleva che si pensasse che Robson avesse la priorità sugli altri che avrebbero continuato a giocare con la squadra l'anno seguente. A ripensarci, adesso, si rende conto di aver esagerato. «Avrei dovuto dimostrargli più comprensione perché era un giocatore straordinario. Qualunque fosse la ragione che mi portò a quella decisione, era sbagliata. Dopo sono migliorato».
La capacità di imparare e adattarsi strada facendo è fondamentale, spiega Moritz: «Le persone che hanno successo sono un po' come Sir Alex, non sono andate a scuola di leadership, non hanno seguito dei master. Si affidano al loro istinto e imparano strada facendo, e penso che Sir Alex stesso ammetterebbe che a cinquant'anni sapeva molte più cose su come allenare una squadra di quante ne sapesse quando ne aveva venti o trenta».
Ferguson aggiunge: «Uno degli studenti di Harvard mi ha chiesto: “Cosa sa oggi che avrebbe voluto sapere trent'anni fa?” Ed è la comunicazione. Quando ero più giovane volevo dominare il mondo e fare tutto». È stato dopo che ha imparato a capire il valore di saper delegare agli altri. «[È stata] la migliore cosa che abbia fatto perché quando sei nel mezzo di un allenamento, guardi solo dove sta la palla. Quando uscivo dal campo… avevo una visione più ampia. A volte non è importante quello che vedi sempre, ma quello che ti perdi».

E poi ci sono cose che non ha mai cambiato. Da quando è approdato al Manchester United dall'Aberdeen, Ferguson era determinato a farne una squadra vincente. «Volevo lavorare sui giovani e gettare le fondamenta che fanno una società calcistica, una buona società calcistica, più che una buona squadra» racconta.
E si mise subito a ingaggiare gli scout che lo avrebbero portato a scoprire la generazione d'oro del 1992: Paul Scholes, David Beckham, Nicky Butt e i fratelli Neville. E vendette i vecchi giocatori per fare spazio ai nuovi. «Facemmo una svendita, ci sbarazzammo di otto, nove giocatori e prendemmo cinque giovani perché all'epoca sentivo che tutti quei giocatori avevano avuto la loro occasione, le loro sfide, sarebbero stati in grado di affrontarne altre? Avevo i miei dubbi».
Un altro punto essenziale della strategia di Ferguson era il controllo sui nuovi acquisti. Una volta si è persino presentato a una festa per farli andare a letto. «Avevo visto cosa succedeva quando un allenatore non aveva la forza di trattare con i grandi giocatori e mi dicevo: “Che razza di allenatore sei se non hai le palle per tenere a bada quei ragazzi?” E non ho mai cambiato atteggiamento: se sgarrano, li metti in punizione».
Roy Keane, Ruud van Nistelrooy e David Beckham furono tra i primi a lasciare la squadra dopo aver litigato col Mister, anche se nel libro lui sorvola sui terremoti dell'epoca. Dopo una lite con la BBC per un documentario sui legami che suo figlio Jason, allora manager sportivo, aveva con la squadra, Ferguson tagliò le comunicazioni con l'emittente per sette anni. I suoi rapporti con i mezzi di informazione in generale erano difficili e Ferguson ammette che non gli piacevano le conferenze stampa.

Il suo desiderio di controllo totale implicava anche essere pagato più di tutti i suoi migliori giocatori, una condizione su cui insistette nel 2010. «Ci volle un po', ma credo che sia importante che se sei l'allenatore del Manchester United, dovresti essere rispettato in modo adeguato, essere quello che viene pagato di più». E ammette che i soldi sono diventati un punto dolente quando gli stipendi dei giocatori sono schizzati alle stelle. I soldi nel calcio hanno anche altri effetti. Lui continuava a porre la sua fiducia nei giovani giocatori, ma questo significava pagare somme di denaro astronomiche. Ferguson pagò 25,6 milioni di sterline per il diciottenne Wayne Rooney. «Ero pronto a pagarli semplicemente perché a 18 anni poteva solo migliorare, perciò quei 25 milioni di sterline, se l'avessimo tenuto per dieci anni, sarebbero stati ben spesi, dico bene?»
E oltre al controllo, Ferguson cercava la coerenza. «Se sei coerente, chi lavora per te sa chi sei. Quando qualcuno cambia di continuo, crea una specie di confusione in campo, la gente dirà: “Ma come, ieri voleva andare sulla Luna e adesso vuole andare su Marte”… Se cambi atteggiamento di continuo, confondi la gente».
Secondo Moritz «la coerenza di avere quella voglia profonda di essere al timone ed eccellere e impegnarsi senza mollare mai, è lì che la maggior parte della gente cade».
Ma sopra ogni cosa, Ferguson voleva vincere. Ancora oggi si pente che il Manchester United non sia riuscito a battere il record del Liverpool di cinque Champions League. Lui voleva semplicemente dare obiettivi molto elevati: «Era per aiutare a credere di poter fare cose che altrimenti non avrebbero mai pensato di essere capaci di fare».
Il grande assente nel libro è l'analisi di uno dei problemi più spinosi con cui tutte le società che hanno leader carismatici devono fare i conti, prima o poi: come sostituirli.
Il successore di Ferguson, David Moyes, è stato licenziato dopo soli dieci mesi. L'attuale allenatore, Louis van Gaal, è rimasto in carica diciotto mesi, ma intende andarsene nel 2017. Un recente sondaggio condotto tra più di 6000 tifosi del Manchester United con la app Forza Football, ha rilevato che il 77 per cento crede che la squadra si troverebbe in una posizione migliore se Ferguson fosse ancora il suo allenatore.
«Andarsene è probabilmente un po' come comprare o vendere un'azione» spiega Moritz. «Hai solo due possibilità, o troppo presto o troppo tardi, ed è difficile azzeccarla». Moritz fa notare che se ci sono esempi di capitani che hanno danneggiato la loro azienda restando troppo a lungo, ci sono anche quelli come Warren Buffett e Rupert Murdoch che continuano a essere l'anima della loro attività. E aggiunge che la decisione di Murdoch di far tornare Rebekah Brooks e metterla a capo di News UK «è una dimostrazione estremamente toccante di lealtà, pur sapendo che è politicamente scorretto dirlo».
Spetta a chi lascia trovare un successore adeguato? Moritz risponde: «Credo che in qualsiasi organizzazione, che si tratti di Apple quando si è ritirato Steve Jobs o del Manchester United, la decisione non è individuale, ma coinvolge tutta l'organizzazione».

Nel caso del Manchester United, Ferguson è stato coinvolto nella decisione di prendere Moyes. Ma con la pressione delle altre squadre sul collo, Moyes non avrebbe mai potuto avere il tempo che Ferguson aveva avuto trent'anni prima. «Abbiamo scelto David Moyes perché si era dimostrato coerente all'Everton, perché era un uomo in gamba, un lavoratore, e per me era la cosa che contava di più». Credo che David sia un buon allenatore. È stato sfortunato – dicevano che arrivare subito dopo di me sarebbe stata dura e che chi sarebbe venuto dopo di lui avrebbe vissuto di rendita». E Moritz conferma: «Se l'organizzazione è molto solida, finirà per prosperare».
Per lui la chiave è nominare qualcuno con idee precise su come va condotto il gioco. Trattando il Manchester United come una società e non solo come una squadra, Ferguson ha ottenuto risultati che nessun altro allenatore potrà mai eguagliare.
«La cosa più importante è trovare qualcuno che lavori come se fosse il proprietario», spiega Moritz. «La maggior parte delle persone che ereditano una posizione, cercherà di fare quello che gli altri si aspettano da loro, più che fare quello che loro pensano sia giusto fare». La capacità di resistere a questo fa «la differenza tra un manager e un leader».
Lionel Barber è il direttore del Financial Times, Malcom Moore il giornalista specializzato nell'industria dell'intrattenimento

© The Financial Times Limited 2015
(Traduzione di Francesca Novajra)

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