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DiBaTotti, la Roma vista con gli occhi dei suoi «capitani coraggiosi»

Capitani coraggiosi. Di Roma, per la Roma, in una città che soffia di passione pallonara, di ponentino quando è sera. Roma divisa tra pragmatismo e nostalgia. Che ancora scrive sui muri lettere d'amore per la “Magica”. Agostino e Francesco. Di Bartolomei e Totti. Storie diverse, parallele. Due giovani calciatori, un sogno comune, calcistico e sociale.

Da imprimere nella memoria collettiva di un popolo (giallorosso) sempre in amore, disperatamente complice dei suoi eroi. A mettere insieme Totti e Di Bartolomei, in un binomio più azzeccato che azzardato, è il «giornalista- ultrà» – autodefinizione dello stesso scrittore – Mauro De Cesare, autore di DiBaTotti (edizioni Goalbook), in libreria da pochi giorni. «Agostino e Francesco, capitani romani e romanisti. E questo è qualcosa che fa parte solo della storia della Roma. Questo ci rende speciali, diversi, unici», scrive nella prefazione Bruno Conti, (altro) monumento del calcio capitolino. Le bandiere.

Quelle di DiBa e Totti hanno sventolato a vent'anni di distanza. Quella di Francesco continua ancora, dopo trecento gol. Entrambi hanno vinto un solo scudetto, troppo poco per non avere un sapore straordinario. Nel campetto di Tor Marancia, oratorio della Chiesoletta (parrocchia di San Filippo Neri), Agostino calciò la sua prima “bomba” da fermo. Nel 1969, a tredici anni, venne preso dalla Roma . L'esordio, a solo 18 anni, a San Siro contro l'Inter, sotto la guida di Helenio Herrera in versione giallorossa. Centrocampista metodista, Di Bartolomei è stato dal 1972 al 1984 leader silenzioso (e carismatico) in una Roma di poeti brasiliani (Falcao), bomber genovesi (Pruzzo), con i panni ancora stesi tra i balconi di Trastevere, e tanti Manuel Fantoni che spopolavano non solo nei film di Verdone. Ricorda Conti che «Agostino era uomo silenzioso, ma dotato di un'allegria romanesca che sapeva tirar fuori quando lo riteneva più opportuno». La Roma dello storico scudetto del 1983. Poi quel rimpianto di una notte di maggio del 1984, quando la “Magica” perse la finale di Coppa dei Campioni all'Olimpico, sconfitta ai rigori dal Liverpool, con 200 mila bandiere al vento nel concerto di Venditti al Circo Massimo. Esattamente il 30 maggio di dieci anni dopo, Agostino Di Bartolomei si tolse la vita: «Non parole. Un gesto...». Ago aveva gli stessi anni che ha ora Totti, 39. Un terribile atto finale che fece pentire molti di non avergli aperto porte di Trigoria. E tutti quelli che non lo accusarono per quell'esultanza dopo un gol alla Roma negli anni di militanza nel Milan di Liedholm. «Quel gesto di esultanza non era rivolto ai tifosi della Roma, aveva un rispetto senza confini per loro. Nel suo borsello conservava gelosamente due cose: la foto di padre Pio e quella della Curva Sud», ha ricordato a De Cesare la moglie di Agostino, Marisa. In quelle immagini sta tutta l'essenza di DiBa, ereditata poi dal più istrionico Totti.

Il fuoriclasse di Porta Metronia da ragazzino ha rischiato di diventare un giocatore della Lazio.Se non fosse intervenuto direttamente il senatore Dino Viola. Francesco debutta in Serie A a 16 anni e mezzo, spedito in campo da Vujadin Boskov in un Brescia-Roma. Eppure per il “lungimirante” tecnico Carlos Bianchi, doveva essere ceduto: «O io o Totti», l'ultimatum. Sensi scelse, senza pensarci, quello che dal '98 sarebbe diventato l'ottavo re di Roma. Conti: «Francesco lo capisci se conosci la sua famiglia, le sue radici nella città, i suoi principi fatti di sacrifici e di amore per la squadra» . «Agostino aveva una predisposizione per i bambini, ai quali nella scuola calcio insegnava prima i valori e poi i segreti del gioco – spiega De Cesare – . Lo stesso spirito paterno si ritrova in Francesco, che sempre in silenzio ha donato il suo tempo libero e le strumentazioni più sofisticate all'ospedale Bambin Gesù per la cura dei piccoli malati». Un uomo non ha bisogno di facili autocelebrazioni. Totti e Di Bartolomei l'hanno sempre saputo.

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