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«Vincere è l’unica cosa che conta», parola di Franco Causio

A quei tempi, nei favolosi Anni 60, stare all’ala era un po’ come morire. La fascia era l’estrema periferia di un football “centrocentrico”, poesia e letteratura si scrivevano solo in area di rigore, tutt’al più sulla trequarti. E chi disegnava calcio sulle linee laterali era più operaio che artista, «emarginato dall’azione che conta e dalla partita», scrisse Sandro Mazzola nel suo libro «La prima fetta di torta», del 1977.

Poi arrivarono Angelo Domenghini, la rivoluzione degli Anni 70, il modulo “totale” degli olandesi, l’occupazione degli spazi (ante Sacchi). L’ala che di colpo non era più soltanto un’ala. E «quelli della fascia» divennero gli aristocratici del rettangolo verde, i più bravi tra i bravi. Tanto che, per distinguersi dalla plebe (pallonara), si fecero crescere baffoni e capelli.

Da Lecce (dove nacque il 1 febbraio 1949) via Sambenedettese, arrivò alla Juventus un giovanotto che i baffi li curava bene, correva tremendamente veloce, e pensava calcio ancora più velocemente. Si chiamava Franco Causio, ma per tutti era, è ancora, il «Barone». Per quei suoi piedi vellutati, sempre un po' incantati, geometrici, essenziali, da sangue blu.

Oggi il Nostro, in perfetto stile juventino, si racconta nel suo «Vincere è l'unica cosa che conta (bianconero da una vita)», scritto con Italo Cucci (edizioni Sperling & Kupfer). «Si, madre Juve - spiega Causio - ha sempre avuto e avrà sempre il Dna del successo. Lì ti insegnano a vivere, a come comportarsi dentro, fuori dal campo. Lo stile Juve non è la giacca, la cravatta o l’orologio sul polsino, ma il grande rispetto verso tutti e verso se stessi. Giampiero Boniperti e l'avvocato Agnelli mi hanno aiutato a crescere, devo molto a loro. Prima ancora a mio padre, ad Attilio Adamo che quando ero a Lecce fu il mio grande maestro nelle scuole calcio».

Il libro percorre le fasi del campione, dell’uomo Causio. La solida struttura caratteriale che ha portato questo genio del calcio a farsi largo in un’epoca zeppa di fuoriclasse. Di talentuosi “tornanti”. Antagonisti in un’epoca in cui il football, per dirla alla Jannacci, «ancora si occupava di quelli che prendono il tram». Laterali funambolici come il “Poeta” granata Claudio Sala, con cui a metà degli Anni 70 Causio da Lecce spartiva il cuore di una Torino caratterizzata dal consueto understatement, impegnata nel riscatto meridionale (nella Juve di allora tanti giocatori del Sud) e nelle lotte operaie davanti ai cancelli di Mirafiori.

Il Barone esordì con la maglia bianconera in serie A il 21 gennaio 1968, in un Mantova-Juventus 0-0. Fu l’unica presenza in quella stagione. Poi fu mandato a fare esperienza altrove: un campionato nella Reggina in serie B, quindi un altro nel Palermo in serie A. Infine fu richiamato a Torino. Nella stagione 1970-71 Causio giocò il primo di undici campionati consecutivi da titolare (inamovibile) nella Juventus. Il suo bilancio alla fine fu di 447 partite giocate (305 in campionato), 73 gol realizzati (49 in campionato) e la presenza in tre mondiali. Vinse 6 scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia.

Nel 1981-82 fu ceduto all'Udinese, infine a 35 anni approdò nell'Inter di Altobelli e Rummenigge. Una galoppata epica. Imperniata di dribbling, traversoni. Sempre con lo sguardo attonito degli avversari che non lo acchiappavano sulla fascia destra, che non riuscivano a contenere la sua arte. «È troppo più forte di me, non potevo fare nulla contro di lui», ammise un giovanissimo Lele Oriali umiliato durante un Juventus-Inter del campionato 1971/1972 (con tripletta del Barone).

Causio il vertice più alto della carriera lo raggiunse con la vittoria del Mundial 82, in Spagna. Quello che fu il mondiale di Paolo Rossi, di Bruno Conti, di gente come il Barone la cui personalità fu determinante per il trionfo finale. «Eravamo partiti male, avevamo tutti contro, ma Enzo Bearzot difendeva tutti, noi 22 giocatori, lo staff tecnico. Eravamo una cosa sola». Il «Vecio» lo fece entrare nei minuti conclusivi della finale di Madrid. Qualche ora dopo, sull’aereo presidenziale che riportava i campioni del mondo a Roma, diede vita con il Ct, Dino Zoff e il Presidente Sandro Pertini alla leggendaria partita a scopone. Era la Nazionale del sogno, di quel Bearzot che già allenò un giovanissimo Barone nella seconda squadra del Torino. «A quei tempi Enzo era il vice di Nereo Rocco. Il”Paron” mi scartò perché mi considerava troppo gracile. Feci due provini con i granata, poi andai alla Juve». E nacque il mito Causio.

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