
La storia è un rumore che rompe il silenzio, un urlo inaspettato che riecheggia in uno stadio, e in quello stadio si moltiplica di colori, restando vivo in eterno. Come a Wembley, in quel Inghilterra-Italia 0-1 del 14 novembre 1973. La partita perfetta e del “per sempre”. Giocata, vinta nell'arena dell'aristocrazia pallonara e dei sogni proibiti. Contro i Maestri inglesi. Contro ogni previsione, contro tutto e tutti, detrattori di casa nostra compresi.
Quella notte a Londra fu un momento forte, di intensa ed irriverente italianità: nel Tempio del pallone, e contro di esso. Negli anni della nostra immigrazione, della crisi petrolifera, delle domeniche a piedi. E soprattutto dell' ‘italianismo' crudo e spiccio sventolatoci in faccia, alla vigilia della gara, da un'Inghilterra spaccona e poco ‘british'. In effetti non l'avevamo inventato noi il football, e non avevamo vinto mai da quelle parti. Ma solo cinque mesi prima, a Torino, avevamo colto la prima vittoria (2-0) sull'Inghilterra dal lontano 1933. Ma in quel lampo d'estate eravamo a casa nostra, era tutt'altra faccenda.
Fare il bis a Londra, a Wembley, sarebbe stato qualcosa di grandioso. Semplicemente un affronto. Un'impresa ad alto contenuto calcistico- culturale che lo scrittore Lorenzo Fabiano racconta nel suo “IL CAMERIERE DI WEMBLEY- 14.11.1973: l'Italia espugna il tempio del pallone” (edizioni Incontropiede). Un'opera nella quale l'autore ripercorre l'humus di quegli anni, il profilo di una partita che- ricorda Roberto Beccantini nella prefazione- uscì dal territorio della sfida meramente sportiva per invadere il territorio della lotta di classe e del risentimento popolare, loro (soprattutto) e nostro”.
Accadde a Wembley, catino senza spazio e senza tempo. “Uno dei pochi stadi al mondo in grado di resistere alla propria revisione estetica. L'hanno chiuso per rifarlo, ma anche adesso, che sembra un'astronave, resta Wembley”. In mezzo ai tifosi italiani, quel giorno, erano presenti anche il padre e il nonno di Lorenzo Fabiano, allora un ragazzino. Il cameriere di Wembley è proprio il nonno dell'autore, Aldo Vignola. Un lord di provincia con il mito del made in England, che non aveva messo mai piede in Inghilterra prima di quel momento. Quello fu il suo battesimo di fuoco. Non poteva essere un'occasione migliore.
Gli inglesi scelsero come data per l'amichevole con l'Italia il 14 novembre, trentanovesimo anniversario della battaglia di Highbury. E per scaldare l'ambiente, marcare le distanze da un Bel Paese arrabbiato, talentuoso e con l'orologio sul polsino, diedero addosso a migliaia di ‘Italians' accorsi per l'evento. I tabloid britannici calcarono la mano. Definirono la nazionale azzurra una squadra “di camerieri”. Esplicito riferimento al passato di Giorgio Chinaglia, nel suo periodo di vita in Inghilterra, quando non era ancora per tutti “Long John”. La ‘trovata' divenne per i nostri giocatori, soprattutto per il centravanti, simbolo della Lazio campione d'Italia pochi mesi più tardi, un eccellente propellente psicologico.
E così i “messicani” del ct Ferruccio Valcareggi, considerati in declino dopo il secondo posto dietro al Brasile di Pelè, e soprattutto dopo la fallimentare eliminazione dall'Europeo 1972 (opera del Belgio), si presentarono a Wembley carichi come molle. Talmente convinti e convincenti da celebrare a piene lettere il concetto di Sir Winston Churchill, secondo cui “Gli italiani vanno in guerra come se fosse una partita di calcio, e vanno ad una partita di calcio come fosse una guerra”. L'Italia di Facchetti e Bellugi, di Zoff e Causio, Riva e Rivera, tramortì gli inglesi. Fu il trionfo del gioco all'italiana, del contropiedismo inestetico ma efficace. Valcareggi tenne i suoi arroccati in difesa, con licenza di liberare ogni tanto il contropiede.
Che la serata di grazia di Gianni Rivera trasformò in arma ad alto potenziale. Il loro portiere, Shilton, fece grandi cose su Riva e Chinaglia, il nostro Zoff sugli indiavolati attaccanti inglesi. Poi, a quattro minuti dalla fine, l'apoteosi. Il vertice più alto del sogno. Un lancio di Fabio Capello a smarcare Chinaglia permise al bomber laziale di fuggire sul fondo e liberarsi di Mc Farland. Il suo rasoterra arrivò nel mezzo e poi sui piedi dello stesso Capello, che mise la sfera in porta, prima dell'arrivo in tuffo di Shilton. Lo stadio sprofondò nel silenzio. Nell'incredulità. Nel marchio d'orgoglio italiano “timbrato sull'onore di tutti quei migranti che i tabloid - ricorda Roberto Beccantini- avevano preso a pizze in faccia”. Gianni Brera parlò di “scippo all'italiana”. In cuor suo, però, era strafelice.
Le truppe di Ferruccio Valcareggi avevano recitato al meglio il calcio che proprio lui, giornalista grande, aveva elevato al rango di scienza pedatoria. Scienza storicamente inesatta, marcata a uomo da utopie realizzabili, declinabili in poesia.
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