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L’addio di Kobe Bryant: 60 punti e l'abbraccio dell’Nba

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L’addio di Kobe Bryant: 60 punti e l'abbraccio dell’Nba

  • –di , con un Infodatablog

Ha finito facendo la cosa che sa far meglio: infilare la palla nella retina, far risuonare quel suggestivo “ciuff!” pur nella bolgia di uno Staples Center tutto a suoi piedi, con Jack Nicholson, David Beckham, anche Alex Del Piero e tanti altri a spellarsi le mani in prima fila, come già accaduto centinaia di volte. Chiude a modo suo, Kobe Bryant, una carriera segnata da 5 anelli Nba e da quella maglia giallo-viloa che è simbolo di grandezza, show-time, vittoria, una seconda pelle e una filosofia fatta di cotone e con un numero 24 stampato nella storia. In una partita senza alcun peso specifico, Bryant ai poveri Utah Jazz ne rifila 60, seppur con percentuali non all'altezza della sua leggenda, ma della sua ultima stagione sì (22/50 dal campo, 6/21 da 3).

Vittoria conquistata (una delle poche di quest'annata disgraziata dei Lakers), e ora lo spazio è tutto per il saluto al mito: “Non riuscivo a credere che sarebbe stata l'ultima volta”, dice Bryant, ma un sorriso troppo largo per essere sincero fino in fondo ricaccia in gola la lacrimuccia, o i lacrimoni: “O mi ami o mi odi”, del resto, è stato lo slogan di questo lungo addio durato un anno o poco meno, come a voler dividere il mondo, ma anche la storia del Gioco, in un “prima” e un “dopo” Kobe. E allora a un duro le lacrime non son concesse, o meglio un duro decide di non concedersele, lasciando spazio agli abbracci, agli affetti, agli amici, alle immagini dei tanti rivali che tante volte quella palla l'hanno dovuta raccogliere, mentre scendeva da quella retìna bucherellata dal numero 24.

Carattere a dir poco ispido, quello di Kobe, per paradosso fortificato, e non addolcito, dall'essere cresciuto nell'Italia che negli anni Ottanta papà Joe attraversò in lungo e il largo, con la famiglia, sempre con la smania, trasmessa poi al figlio, di crivellar canestri. E alle nostre latitudini che Kobe diventa discepolo della religione della perfezione, che trasforma la palla da basket in una pura e semplice propaggine della sua mano. L'insegnante migliore, poi, è proprio papà Joe, con cui pure avrà negli anni un rapporto difficile, oltremodo dialettico. E popi i video dei migliori, Michael Jordan su tutti, e le ore passate al campetto, già col piglio del professionista fin da bambino. Nasce lì il Kobe fenomeno tecnico e atletico, il leader, l'altezzoso trascinatore, che non rinuncia a rimproverare apertamente i compagni non al suo livello, o a rompere il sodalizio vincente con Shaquille O'Neal, perché non può esserci sistema solare che abbia due stelle su cui far perno, e la luce deve allora arrivare solo dal numero 24.

Addio in grande per Kobe Bryant

Nel 2003 poi, l'altra grande macchia che ne offusca l'immagine: l'accusa di violenza sessuale dopo un'avventura extra-coniugale di una notte, che lo porterà sull'orlo del divorzio e a sborsare una cifra non banale, per risolvere la vicenda con un accordo che eviterà conseguenze più gravi. E poi, a offuscare stavolta l'immagine del campione sul parquet, queste ultime stagioni, dopo l'apogeo dello straordinario titolo 2010, vinto a gara-7 contro i rivali di sempre, i Boston Celtics: gli infortuni, certo, ma anche l'incapacità di far crescere (mai fosse stato possibile) un erede, o meglio i “nuovi” Lakers, fagocitati invece dall'ennesimo maxi-rinnovo contrattuale e dalla smania di essere sempre lui, solo lui, il cuore dell'universo gialloviola. Ora a 37 anni, Kobe volta pagina: dovrà imparare a essere qualcosa d'altro, e se riuscirà a farlo minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, potrà dire di essere riuscito a vincere la partita più importante: quella contro il mito che ottenebra mente e cuore, infingardo impostore, e che impedisce di vivere non all'altezza di un canestro, ma a livello degli umani, nella loro comune e quotidiana normalità.

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