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Spagna 1982, per l’Italia un mondiale storico diventato mito

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Spagna 1982, per l’Italia un mondiale storico diventato mito

Estate 1982. L’estate del sogno, della rinascita dell’italian- style, del sole caldo e della «127 Abarth» per andare a cuccare. In quei giorni di giugno e luglio la voce di Franco Battiato urlava dalle finestre sempre spalancate. Senza aria condizionata. Erano i momenti del Mondiale di Spagna. Di un campionato di football epico, irripetibile, inaspettato padrone dei sentimenti comuni e privati, scaraventati in un centro di gravità permanente da cui la memoria collettiva (non solo calcistica) è mai più uscita. L’estate più calda di tutte, quella dell'82. Pregna di amore- odio esistenziale, di catulliana memoria.

I fotogrammi di quei giorni restano indelebili, senza tempo. L’urlo di Tardelli nel 2-0 che affossa la Germania nella finale di Madrid dell’11 luglio. Le braccia al cielo senza freni, senza protocollo, del presidente Sandro Pertini. E poi lo sguardo tosto- umano e molto friulano del padre putativo di quel trionfo, il “Vecio” (definizione di Giovanni Arpino) Enzo Bearzot. Raccontato allora nel fermo-immagine di Antonio Ghirelli, Corriere della Sera: «Labbra strette, il viso tirato, il contegno calmissimo di Bearzot sprofondato in quella “segreta” da Castel Sant’Angelo che era la panchina di questi campionati. E poi il suo sorriso aperto, il suo chinarsi paterno a baciare i giocatori che lo portavano in trionfo».

Spagna 1982. Non fu solo calcio. Ma un percorso di storia, di vita. Ricordato dallo scrittore Alberto Guasco, docente di Storia contemporanea presso la Link Campus University di Roma, nel suo «Spagna '82. Storia e mito di un mondiale di calcio» (Carocci editore). Un’opera sui momenti del trionfo azzurro, attraverso le fasi sportive, letterarie e giornalistiche, contrapposte e talvolta esagerate. Mentre dal punto di vista internazionale - ricorda l’autore - «dall'Atlantico al Mediterraneo i venti di almeno tre guerre lambivano le coste iberiche in quei giorni, contribuendo a condizionare il clima sportivo del mundial. Alla cornice della Guerra fredda si aggiungevano, infatti, il conflitto tra Argentina e Inghilterra per il possesso delle isole Falkland-Malvinas e, a partire da giugno, l'attacco israeliano al Libano».

Si combatteva nel mondo con le armi, con l'inchiostro sui nostri (scatenati) organi di stampa. Il libro ripercorre gli attacchi furibondi alla truppa azzurra già nel pre- ritiro di Alassio e nei complessi e complessati giorni di Vigo e dei tre deludenti pareggi iniziali contro Polonia, Perù e Camerun. E poi - si legge nel testo- «l’itinerario di inversione a U operata dai giornali riguardo alla nazionale di Bearzot. Dalla povere all’altare, secondo il paradigma ironico per cui il giornalista è uno che dopo sapeva sempre tutto prima». Fino alla gara con l’Argentina (29 giugno), l’Italia degli italiani e soprattutto degli intellettuali era dunque spaccata tra possibilisti e detrattori radicali, o meglio, affossatori. Tutto questo - spiega Guasco - «in un’epoca in cui calciatori e giornalisti vivevano ancora gomito a gomito – simpatie e antipatie incluse – e con la carta stampata che non aveva ancora ceduto il proprio primato alla televisione».

A guidare il drappello dei detrattori che attendeva al varco Bearzot - si ricorda nel libro - erano i giornali romani, per primi «Il Messaggero» e il «Corriere dello Sport - Stadio». Come ricordano benissimo Zoff («le critiche erano pregresse. Ma con Rossi che non faceva gol la stampa romana automaticamente si scatenava con ciascuno a far gara nell’essere più denigratorio degli altri») e lo stesso Pablito («la stampa romana è stata forse la più critica nei confronti della nazionale e di Bearzot. Lo scontro verbale è stato duro e aspro, in alcuni momenti si è sfiorato lo scontro fisico»). I toni pian piano si attenuavano risalendo in direzione nord, nord-ovest. Ma se quell’Italia triste, partita disastrosa nel girone di Vigo, era in simbiosi con un popolo dicotomico, sottomesso al pessimismo, ancora ferito dal terrorismo e senza rivincite all’orizzonte, poi con le reti del capocannoniere Paolo Rossi (6 gol) la fantasia di Bruno Conti («Il migliore in Spagna» secondo Pelè) e la mostruosa diga difensiva (Gentile annientò Zico e Maradona) cambiò tutto e tutto non fu più come prima.

La Nazionale, l’umore di un popolo, i contenuti stessi della nazione. Come in una favola, nelle pieghe della vita. Anche politica. Dal match contro l’Argentina e per le due settimane successive – in parallelo alla crisi sfiorata dal suo governo – il traballante presidente del Consiglio Giovanni Spadolini si impegnò a ripetizione a commentare i fatti di Spagna. Il 29 giugno contro l’Argentina, mentre era in corso il vertice tra governo e sindacati riguardo al problema della scala mobile, interruppe per una decina di minuti l’incontro per affacciarsi su via del Corso e salutare i tifosi romani in festa e quindi telegrafare le proprie felicitazioni alla nazionale azzurra. Il suo governo probabilmente non cadde grazie al successo azzurro. L’epica scoccò, in tutti gli strati sociali, in un crescendo rossiniano. «Rossi è uno svettante Caruso del gol», scrisse «Paese Sera» dopo la tripletta nel 3-2 al Brasile.

L’Italia, prima di arrivare all’ultimo atto della finale con la Germania, battè l’Argentina di Maradona, appunto il Brasile di Zico (forse la miglior Selecao di tutti i tempi) poi la Polonia in semifinale. A “profetare” la vittoria dell’Italia al mondiale spagnolo – il pomeriggio dell’11 luglio 1982 – fu però un mostro sacro del rock come Mick Jagger. Quel giorno - si racconta nel libro - il tour dei Rolling Stones, legato alla presentazione dell’album Still Life, fece tappa allo stadio Comunale di Torino. Il biglietto color rosso fucsia annunciava l’inizio dell’esibizione per le 15, anticipata per permettere a chi lo voglia di assistere alla finale delle 20. E fu verso il finale del concerto che – dismesse le sue tute aderenti – il leader delle «Pietre Rotolanti» apparve sul palco con la maglietta numero 20 di Paolo Rossi annunciando «Questa sera vincerete 3-1». Cosi andò. E l’Italia in trionfo e in festa, quella notte, cambiò faccia.

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