Ci sono tre elementi che rendono originale la campagna elettorale per le amministrative di Milano.
Primo. Rispetto alle altre città il centrodestra appare coeso, non si è spaccato come altrove e presenta compattamente un solo candidato. Stefano Parisi è il nome tirato fuori dal cilindro da Silvio Berlusconi, quando a Milano impazzava la ricerca dell'uomo giusto, e in effetti in due giorni tutti si sono allineati.
Secondo. Pure il centrosinistra sembra aver ritrovato una sola anima. Le varie correnti in poco tempo si sono assopite. Sel ha impiegato settimane per capire se doveva rimanere o meno dentro la coalizione che andava a votare alle primarie Giuseppe Sala come candidato, e alla fine ha deciso di restare.
Una parte più radicale, vicina a Sinistra Italiana (la lista “Milano in Comune”), ha deciso subito di andare per conto suo e le liti sono durate ben poco. Quindi anche nel centrosinistra l'ex commissario dell'Expo è stato alla fine supportato da tutti (anche dal poco entusiasta sindaco Giuliano Pisapia, che avrebbe preferito la sua vice Francesca Balzani).
Terzo. A Milano il Movimento 5 Stelle totalizza, grosso modo, la metà dei voti che prende altrove, fermandosi fra il 10 e il 14 percento. Inoltre il cambio in corsa del candidato - ora è Gianluca Corrado, prima Patrizia Bedori - non ha permesso di creare grande empatia con i milanesi. Il risultato è che qui il movimento di Beppe Grillo non solo non dovrebbe superare il primo turno, ma inciderà probabilmente meno che altrove in fase di ballottaggio, con scarsa capacità di indirizzare i voti. Tanto che lo stesso Corrado lo ha già dichiarato: meglio l'astensione (anche se poi sotto sotto la guerra contro il governo Renzi imporrebbe di dare l'indicazione di votare Parisi, ma senza dirlo troppo chiaramente).
C'è però un quarto elemento che contraddistingue Milano, e non da ora: i due principali candidati, Sala e Parisi, si presentano come manager, come “uomini del fare”. Ex commissario dell'Expo il primo, fondatore di Chili Tv il secondo. Sembra che i milanesi non amino il politico di professione ormai da decenni, e i partiti di entrambe le parti lo sanno bene.
Fin troppo ingenuamente però Sala e Parisi vengono raccontati come tecnici prestati alla politica. Sala non solo ha fatto il city manager (con Letizia Moratti sindaco) ma ha anche guidato l'Expo. E quindi di finanziamenti pubblici, tempi della politica, rapporti con il governo e persino di inchieste per reati contro la pubblica amministrazione ne sa qualcosa.
Stessa cosa per Parisi, che è partito dal centro studi della Cgil per poi svolgere ruoli apicali nella macchina di Palazzo Chigi ai tempi del Psi al governo. Cosa sia la politica lo sanno bene dunque sia Sala che Parisi.
Quindi anche a Milano la politica c'è. È solo più nascosta. Ma talvolta emerge.
Viene fuori quando bisogna - anche per forza - cercare le differenze tra centrodestra e centrosinistra. Ci provano gli stessi candidati a marcare la diversità: Sala insiste sull'equità, sull'integrazione, sull'accoglienza e sulle auto ecologiche, come ha fatto nel confronto a tre su Sky; Parisi sottolinea invece che Milano non può più accogliere immigrati, che il fisco è troppo alto e che i reati devono essere perseguiti per migliorare la sicurezza.
Per trovare la differenza fra i due city manager si torna quindi alle parole politiche d'ordine della sinistra e della destra. Non senza contaminazioni, certo: sulle liberalizzazioni ad esempio è Sala che si spinge a parlare di vendita di quote della società aeroportuale Sea, mentre Parisi è più dubbioso (e del resto la Lega appare spesso più statalista della maggioranza del Pd). Ma per quanto riguarda le politiche sociali, i parametri sono quelli tradizionali.
La politica infine entrerà, volenti o nolenti, nell'attività di giunta. Perché che si tratti di un bravo tecnico o di un esperto manager, il sindaco avrà sempre da rendere conto al partito di maggioranza e alla coalizione che lo sostiene in consiglio comunale. Chi amministra una città sa bene che il suo valore e la sua immagine contano fino ad un certo punto: servono a vincere le elezioni, ma per governare occorre conoscere la grammatica (e i tranelli) della politica.
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