C’è uno spettro che si aggira sulle elezioni di domani: l’astensionismo. Quella fetta sempre più grande di italiani che negli ultimi anni ha progressivamente deciso di chiamarsi fuori dalla partecipazione al voto, vuoi per disincanto vuoi per protesta. Lo ha ricordato il Censis: nei sette principali comuni coinvolti in questa tornata, dal 2001 al 2013 si sono persi complessivamente 1,138 milioni di elettori. Quanto Torino e Trieste messe insieme. E il voto concentrato nella sola giornata di domenica, per lo più alla fine del lungo ponte del 2 giugno, potrebbe fare la differenza per un 10-12% di elettori.
Roma: dall'80% dei tempi di Rutelli-Fini al 52,6% dell'era Marino
La frana di votanti più vistosa ha riguardato Roma, dove l’affluenza è passata dal 79,4% delle comunali del 2001 al primo turno, dove si fronteggiavano Walter Veltroni e Antonio Tajani, al 52,8% di votanti nel 2013, quando Ignazio Marino volò al ballottaggio con Gianni Alemanno. Un tracollo del tasso di partecipazione al voto del 26,2% in dodici anni. Cifre lontanissime dal record del 5 dicembre 1993 quando al primo test dell’elezione diretta dei sindaci l’infuocato duello tra Rutelli e Fini portò al ballottaggio il 79,85% dei votanti. I risultati di domani diranno se la tegola di Mafia Capitale e il tumultuoso addio di Marino che ha portato al commissariamento della città hanno allontanato ancora di più i cittadini dalle urne. E saranno decisivi per capire quanto i voti dei delusi sono intercettati dalle forze più lontane dai partiti tradizionali.
Milano e Torino hanno perso il 15% di votanti
Negli ultimi anni la disaffezione al voto ha colpito anche Milano, ma in misura minore. I votanti sono scesi dall’82,3% del 2001 (Gabriele Albertini contro Sandro Antoniazzi) al 67,6% del 2011, quando Giuliano Pisapia ha superato Letizia Moratti: -14,7 per cento. Più consistente (-16% di votanti) la crescita dell’astensionismo a Torino, che ha registrato un crollo dall’82,6% del 2001 (quando si decise il ballottaggio tra Sergio Chiamparino e Roberto Rosso) al 66,5% di dieci anni dopo, quando Piero Fassino vinse al primo turno.
L’astensionismo ha colpito anche Napoli e Bologna
A Napoli l’affluenza è calata dal 68,2% del 2001 (Rosa Russo Iervolino andò al ballottaggio con Antonio Martusciello) al 60,3% del 2011, voto che decretò il ballottaggio tra Luigi De Magistris e Gianni Lettieri da cui uscì vincente l’ex pm, che oggi sfida tutti: 7,8 punti percentuali in meno. Persino la “rossa” Bologna ha visto ridurre la partecipazione al voto del 10,4%, dall'81,8% del 2004, quando Sergio Cofferati vinse al primo turno contro Giorgio Guazzaloca, al 71,4% nel 2011 quando si affermò l'attuale sindaco ricandidato Virginio Merola.
Sfiducia o fine delle ideologie?
Se la storia politica italiana insegna che l’astensionismo alle elezioni è andato crescendo di pari passo con la denuncia dei fenomeni di corruzione nel sistema partitico, dunque a partire dalla fine degli anni Settanta con l’emergere della “questione morale”, va ricordata l’altra lettura possibile: che il voto abbia via via perso la sua valenza di “dovere”, così sentita nel dopoguerra, e si sia sempre più strutturato come un diritto. Tramontate le ideologie, sfilacciato il radicamento territoriale delle forze politiche, attenuate le tradizionali differenze tra destra e sinistra, il partito del non voto assume quasi i tratti di una componente fisiologica delle democrazie contemporanee. Fisiologica, ma rischiosa. È stato il presidente Sergio Mattarella, l’8 marzo scorso, a due giorni dalle primarie del centrosinistra nelle città, a ricordare: «L’astensionismo è una ferita che nessuno può permettersi di trascurare. È compito della politica riguadagnare la fiducia dei cittadini, con coerenza e serietà, con attenzione al bene comune e ai principi di legalità».
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