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Dossier Europei 2016 al via, la Francia è blindata

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Dossier | N. 34 articoliEuropei di calcio Francia 2016

Europei 2016 al via, la Francia è blindata

Dopo gli attentati terroristici del 2015 di Charlie Hebdo e del Bataclan, la Francia si prepara alla partita inaugurale Francia-Romania a Saint-denis, nello stesso stadio davanti al quale, non essendo riusciti a entrare, la sera del 13 novembre scorso si sono fatti esplodere tre kamikaze
Dopo gli attentati terroristici del 2015 di Charlie Hebdo e del Bataclan, la Francia si prepara alla partita inaugurale Francia-Romania a Saint-denis, nello stesso stadio davanti al quale, non essendo riusciti a entrare, la sera del 13 novembre scorso si sono fatti esplodere tre kamikaze

Quando, nel maggio del 2010, la Francia venne scelta per ospitare gli Europei 2016, nessuno avrebbe potuto immaginare che il Paese si sarebbe presentato all’appuntamento con questa grande festa sportiva in simili condizioni: incerto, impaurito, inquieto, alle prese con una strisciante crisi politica, un conflitto sociale tra i più duri degli ultimi vent’anni, una preoccupante situazione economica generale. E da mesi in stato di emergenza.

Eppure è il contesto nel quale, il 10 giugno, si apriranno i giochi. Con la partita inaugurale Francia-Romania a Saint-Denis, in uno stadio blindato. Lo stesso davanti al quale, non essendo miracolosamente riusciti a entrare, la sera del 13 novembre scorso si sono fatti esplodere tre kamikaze dello Stato islamico.

Un rischio, quello del terrorismo, che ancora pochi giorni fa ha costretto il premier Manuel Valls a ribadire che «Parigi non ha alcuna intenzione di rinunciare agli Europei». Come se davvero questa eventualità fosse ancora possibile.

Il sostanziale fallimento di quella che avrebbe dovuto essere una prova generale – il 21 maggio con l’incontro tra il Psg e l’Olympique di Marsiglia – non è certo servito a rassicurare: caos alle quattro porte d’ingresso (rispetto alle 26 abituali) e all’interno, malgrado i controlli, fumogeni, caschi, bottiglie di vetro, bastoni.

I responsabili della sicurezza garantiscono che questi problemi verranno risolti. Che grazie alla presenza di oltre 70mila poliziotti e di 13mila addetti delle società private di security, le partite si giocheranno in condizioni di massima sicurezza. Ma i dubbi e i timori – dopo i terribili attacchi del 2015, da Charlie Hebdo al Bataclan – rimangono.

A proposito degli stadi, che accoglieranno 2,5 milioni di persone (tra cui 1,5 milioni di stranieri) e saranno dotati anche di un inedito sistema “anti droni”. Ma soprattutto delle cosiddette “fan zones”, previste in tutte e dieci le città ospitanti. Quando venne deciso di prevedere delle aree all’aperto, a ingresso gratuito ma controllato, dove chiunque potesse andare a guardarsi i match sui mega schermi, questa sembrava un’eccellente idea. Che si è ormai trasformata in incubo. Dalla più piccola (a Lens) fino alla più grande (nel parigino Champs de Mars, ai piedi della Tour Eiffel, che potrà accogliere 92mila persone), si calcola che durante la durata di Euro 2016 (si chiuderà il 10 luglio, con finale sempre a Saint-Denis) a frequentarle saranno oltre sette milioni di persone. Sembra impossibile controllarle tutte. Nonostante i Comuni abbiano raddoppiato il budget della sicurezza, da 12 a 24 milioni.

Come se l’emergenza terrorismo non bastasse, in queste ultime settimane si è aggiunto il durissimo scontro sulla legge di riforma del mercato del lavoro (frettolosamente ribattezzata jobs act alla francese). Una riforma di cui questo Paese apparentemente irriformabile (siamo ancora in attesa della tanto sbandierata apertura domenicale dei negozi nel centro di Parigi, bloccata dall’ennesimo niet sindacale) e paralizzato dalla paura del cambiamento, avrebbe urgente bisogno. Per rendere più flessibile e moderno un mercato del lavoro arcaico e ipergarantista. Per ridare ossigeno a un’economia in difficoltà e ridurre una disoccupazione che sembra cronicamente installata al di sopra del 10 per cento.

Dopo una prima versione che avrebbe davvero rappresentato una piccola rivoluzione per il Paese delle 35 ore, dei privilegi corporativi, delle resistenze sempre e comunque, il Governo ha già fatto una grossa retromarcia - rinunciando a molte innovazioni, sostanzialmente quelle chieste dalle imprese - e raggiunto un compromesso con i sindacati “riformisti”.

Ma non è bastato. Non è bastato all’estrema sinistra e ai frondisti del partito socialista, privando il Governo della maggioranza parlamentare e costringendolo a porre la fiducia. E non è bastato ai sindacati oltranzisti (prima tra tutti la Cgt, vicina ai comunisti), che hanno deciso di ingaggiare un vero e proprio braccio di ferro con il premier e il presidente François Hollande. Per cercare di imporre il ritiro del provvedimento, hanno già organizzato otto manifestazioni nazionali di protesta – con l’ormai abituale corollario di black bloc che aggrediscono i poliziotti, bruciano le auto, distruggono tutto quello che possono – bloccato raffinerie, depositi petroliferi e centrali, promosso scioperi nei trasporti.

In una battaglia ormai diventata tutta politica (i contenuti dell’ultima versione della legge non giustificano in alcun modo un simile conflitto), nessuno sembra disposto a indietreggiare. Non la Cgt – ultimo bastione del sindacalismo d’antan, guidata da un signore che propone la settimana lavorativa di 32 ore a parità di salario – la quale si gioca gli ultimi consensi e i rapporti di forza rispetto alle altre organizzazioni. Non Hollande, il presidente più impopolare di sempre, che ha deciso di affidare a questa – pur timida – riforma la prospettiva di una candidatura alla propria successione e le residue speranze di essere lui, e non il candidato della destra, ad affrontare la leader dell’estrema destra Marine Le Pen nella corsa all’Eliseo.

Il pericolo terrorismo e il conflitto sociale si inseriscono a loro volta nel più generale scenario di una Francia in grave difficoltà sui due fronti dell'economia e soprattutto dei conti pubblici. La crescita stenta ad arrivare, almeno una crescita sufficiente a far ripartire l’occupazione, in un Paese che dall’elezione di Hollande, nel 2012, ha perso oltre 600mila posti di lavoro. Il debito sfiora ormai il 100% del Pil e il deficit (per il quale Parigi ha già ottenuto tre deroghe da parte della Commissione europea) rimane saldamente al di sopra del fatidico 3% (che dovrebbe essere raggiungo l’anno prossimo), nonostante la pressione fiscale sia ormai la più alta d’Europa (45,7%, davanti alla Danimarca). Con una spesa pubblica (pari a oltre il 55% del Pil) che continua a crescere in valore assoluto e un deficit della bilancia commerciale che nel primo trimestre ha già superato quota 13 miliardi (rispetto ai 12,3 dello stesso periodo del 2015).

Certo, la Francia può ancora contare sui suoi vantaggi competitivi storici (i grandi gruppi e l’efficienza dei servizi pubblici) e su un certo dinamismo del settore digitale. Ma la situazione complessiva – seppure Hollande dica che “va meglio” - rimane tutt’altro che rosea. Come peraltro conferma l’ultima rilevazione Ernst&Young sull’attrattività internazionale. Nel 2015, la Francia è l’unico dei primi 15 Paesi in classifica ad aver registrato un calo degli investimenti diretti esteri. La sua quota sul totale è passata in un decennio dal 16 al 12%. E gli eventi di questi mesi sicuramente non aiuteranno a invertire la tendenza.

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