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«Accoglienza diffusa» in Cadore, rifugiati nei paesi spopolati…

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un caso di integrazione

«Accoglienza diffusa» in Cadore, rifugiati nei paesi spopolati delle Dolomiti

Un caso di integrazione riuscita, grazie anche a un modello «vincente» di accoglienza diffusa sul territorio. È quello che si sperimenta in Cadore, dove la comunità montana accoglie i richiedenti asilo. Nelle casette dei paesi spopolati sulle Dolomiti orientali, arrivano giovani africani, afghani e pachistani che puliscono le strade, falciano l'erba, riparano le recinzioni. Piccoli gruppi di rifugiati, ospitati nelle frazioni e nei comuni. Seguono corsi professionali, lavorano per imparare un mestiere. È la strategia di accoglienza diffusa della cooperativa sociale Cadore Scs, aderente a Legacoop e Confcooperative. Oggi, i rifugiati partecipano a progetti di riqualificazione degli orti e provano a far nascere una coltivazione sperimentale di carciofi alpini insieme ai disabili.

La rete di ospitalità in Cadore
È un territorio difficile quello del Cadore, alta provincia di Belluno in Veneto. La crisi dell’industria dell'occhiale ha colpito duramente. Ma qui si sperimenta anche l'amicizia tra montanari del Nord Italia, subsahariani e orientali. Grazie al lavoro di rete di una cooperativa di comunità che si ispira ad un modello di accoglienza diffusa con case a Perarolo, Lozzo, Domegge e Valle di Cadore. Da segnalare che nella radice celtica del nome “Cadore”, c'è anche il significato di “battaglia” e “roccaforte”.

La chiave dell’accoglienza diffusa
Una delle chiavi del successo di questo esperimento sembra stare nell’accoglienza diffusa sul territorio. «L'accoglienza in piccoli gruppi funziona» racconta Luca, responsabile del progetto. «È più dispersiva e problematica perchè richiede più risorse e personale ma paga in termini di integrazione e di gestione del clima interno delle case. Solo così si può dare un miglior servizio ai richiedenti asilo e allecomunità». Non è certo semplice reperire nuovi alloggi sparsi nei comuni da affittare ai richiedenti protezione internazionale. Anche quando sono disabitati. Perchè c’è da vincere la barriera della diffidenza. Ad alcuni non basta la garanzia della cooperativa per concedere gli appartamenti in affitto.

L’amicizia tra due falegnami
Le storie di integrazione non mancano. Quando la incontrano per strada i migranti la chiamano “mamà”. Costantina ha i capelli bianchi e da poco ha dei vicini di casa africani. Dalle onde sui barconi, sono arrivati sani e salvi fino alle pendici innevate dell'Antelao. Molti hanno ancora l'incubo della Libia negli occhi. A Vallesina ci sono meno di venti abitanti. E tutti conoscono la casetta vicino al fiume in cui vivono i quattro migranti ospitati dalla cooperativa Cadore. Kamara è uno di loro. Nel suo Paese era un falegname. Come suo padre. E grazie all'amicizia con Fabio, carpentiere e socio della cooperativa di comunità, è potuto tornare a lavorare il legno. E a mostrare orgoglioso i telai per la tessitura che sta realizzando per i bambini della scuola di Belluno.

Iqbal, un lavoro e un appartamento
La storia di Kamara non è isolata. Quella di Iqbal è rocambolesca. Dall'Afghanistan, in aereo, fino in Iran. E poi a piedi attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, l'Ungheria e l'Austria, via terra, fino a Perarolo. Iqbal, 26 anni, una moglie e due bimbi ancora in Afghanistan, ha attraversato un continente. I soldati italiani, nel suo paese, vicino Kabul, «erano buoni» – racconta - e davano matite e quaderni ai bambini. Anche ora che è in Italia, racconta, ha trovato persone pronte ad aiutare gli altri. Divide con solo un altro migrante l'appartamento offerto dal Comune. Iqbal lavora tutti i giorni nella manutenzione del verde e nel tempo libero gioca a pallavolo con l'amico con cui ha condiviso il viaggio a piedi.

«Wife and WiFi»
I richiedenti asilo scherzano e riassumono così (“una moglie e la connessione internet wifi”) le loro necessità attuali. La cooperativa ha provveduto al wi-fi, anche se alle volte ci sono problemi di connessione. Ma qualcuno ha davvero trovato moglie o fidanzata in Cadore. Come il ventitreenne Daouda. Abita nel più grande dei centri di accoglienza, quello di Pieve, che ospita attualmente 18 giovani africani in un ex convento concesso in comodato d'uso dalla Diocesi di Belluno. «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qui. Vestiti, scarpe: sono in magazzino. E se non hai qualcosa, chiedi alla cooperativa e loro ti portano ciò di cui hai bisogno» spiega. È tra i quattro rifugiati che, grazie a Garanzia Giovani, dopo un percorso formativo, faranno un tirocinio in cooperativa.

Disabili e rifugiati al lavoro nei campi
Non solo. Dopo dieci anni di abbandono, le terre attorno all'ex convento di Pieve di Cadore tornano a nuova vita grazie all'impegno dei richiedenti asilo che vi sono ospitati e a dei disabili. Sono nati un orto, un frutteto e un pollaio. «Quello che colpisce di più è che sorridono sempre, nonostante le difficoltà attraversate» racconta Marco, un volontario che ha seguito l'intero progetto sui campi. Da poco è stata anche attivata una coltivazione sperimentale di carciofi alpini, grazie alla cooperativa, ad un contributo della Fondazione Cattolica Assicurazioni e alla collaborazione con la Fondazione Edmund Mach.

Le attività della Cadore Scs
La Cadore Scs- 123 soci dei quali 28 svantaggiati- lavora per creare opportunità di lavoro e per favorire l'economia del territorio, operando su più fronti. L'accoglienza dei richiedenti asilo è solo l'ultimo dei servizi cui si è aperta dopo manutenzioni ambientali e ingegneria naturalistica, global service, e soprattutto una lunga esperienza nel turismo di comunità.

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