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Merloni, il più piccolo dei grandi imprenditori

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il ricordo

Merloni, il più piccolo dei grandi imprenditori

Vittorio Merloni (ImagoEconomica)
Vittorio Merloni (ImagoEconomica)

«Il più piccolo dei grandi imprenditori»: così si era definito Vittorio Merloni, quando assunse nel maggio 1980 la presidenza della Confindustria. Non apparteneva al gotha del capitalismo italiano, anche se l'azienda marchigiana, di impianto familiare, fondata negli anni 30 dal padre Aristide per l'allestimento di bascule e bombole a gas, aveva fatto da allora parecchia strada: tanto da annoverare, con il marchio Ariston, 14 stabilimenti (di cui 3 all'estero) e da avvalersi della collaborazione di consulenti di spicco, fra cui Nino Andreazza e Romano Prodi. D'altronde, proprio per il fatto che la Merloni era stata per parecchio tempo una piccola-media impresa, come molte di quelle che durante la stagflazione degli anni 70 avevano agito da salvagente del sistema produttivo, Vittorio era stato eletto alla guida di Confindustria, quale campione di quella sorta di “terza Italia” estesa dal Triveneto alla dorsale adriatica.

In ogni caso, egli intendeva ripristinare la “centralità” dell'impresa, dopo che, come asseriva, «per 10 anni il profitto è stato vilipeso, il lavoro mortificato, l'efficienza svalutata». Tuttavia Merloni escludeva tassativamente che si dovesse scendere in guerra con i sindacati, in quanto, a suo avviso, lo «scontro di classe» apparteneva «al passato». Occorreva invece convincere le centrali sindacali, nell'interesse comune, della necessità di un incremento della produttività e della lotta all'inflazione: sia per essere più competitivi nei circuiti internazionali, sia per evitare una emarginazione dell'Italia dalla Comunità europea.

Sul fronte dei rapporti con la classe politica Merloni sosteneva che la Confindustria dovesse dar battaglia, in nome dell'autonomia e del pluralismo, nei confronti di tutte le forme di occupazione e lottizzazione della società messe in atto dai partiti. Le imprese, a loro volta, non dovevano più chiedere al governo provvidenze di carattere assistenziale . Per il resto, credeva che si sarebbe potuto rilanciare un‘«economia mista di mercato» come quella italiana solo in base a una politica di programmazione imperniata su «grandi scelte e obiettivi di sviluppo».

Si comprende pertanto come, rispetto a queste sue aspettative rimaste successivamente disattese, Merloni parlasse di una «crisi d'inconcludenza» e si rifiutasse di fare i conti con quella realtà immobile, affrontando invece le sfide del cambiamento e dell'innovazione per il rilancio del sistema-Paese. Ciò che egli ribadì in particolare nel marzo 1983 nell'”Incontro sul futuro” indetto dalla Confindustria a Milano, che mirava a coinvolgere la società civile e l'opinione pubblica intorno a un progetto dal titolo “Orizzonti Novanta”.
Insieme allo sviluppo di una cultura d'impresa avente per caposaldi la professionalità, l'efficienza e la meritocrazia, Merloni auspicava che il sistema bancario operasse con «più managerialità, meno burocrazia e più attenzione per lo sviluppo delle Pmi».

A poche settimane dalla scadenza del suo mandato, era riuscito infine, con l'«accordo di San Valentino» sottoscritto dalla Cisl, dalla Uil e dalla componente socialista della Cgil, a porre le premesse del decreto legge del governo Craxi sui tagli della scala mobile, che sarebbe stato sancito successivamente dal referendum popolare con cui il Pci avrebbe voluto invece abrogarlo.

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