
Prima di chiudere i tribunali dei minori (la legge che li sopprime e li accorpa nel tribunale della famiglia è stata licenziata a Montecitorio ed è in attesa dell’esame al Senato) bisognerebbe prendere un aereo per la Calabria e chiedere udienza al dottor Roberto di Bella, messinese di nascita e presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria.
La sua vita professionale è stata per anni una via crucis lastricata di sconfitte. Una serie di insuccessi prevedibili alla luce dell’obiettivo che Di Bella e i giudici che lo affiancano si prefiggevano: tutelare i ragazzi della ‘ndrangheta, la più potente e ramificata organizzazione criminale globale.
Salvare i figli dei capi cosca significa potare i rami che un giorno neppure tanto lontano alimenteranno l’organizzazione criminale. Semplici e implacabili le regole di natura tribale, come racconta la fiction Rai su Lea Garofalo (per una volta per narrata e ben interpretata): se qualche rappresentante della famiglia sgarra, dev’essere il parente più prossimo a eliminarlo. Chi non rispetterà questo comandamento, sarà assassinato a sua volta.
Gli ‘ndranghetisti tengono a due cose al di sopra della Madonna di Polsi, il santuario aspromontano in cui vanno in processione almeno una volta l'anno: i soldi e i figli. L’una è la prosecuzione dell’altra, l’espressione dello stesso potere. Avere un figlio undicenne che maneggia armi da fuoco con destrezza, si fa estrarre un dente dal dentista rifiutando con sprezzo l'anestesia (è accaduto nella Piana di Gioia Tauro) o si fa tatuare un carabiniere sotto il piede per il gusto di calpestarlo a ogni passo, è la prova che la stirpe possiede le cinque stimmate della mafiosità: privazione, sofferenza, vendetta, carcere e morte. Categorie alle quali uno Stato democratico improntato a principi di tutt'altra natura non può abdicare.
Di Bella si è macerato per anni, spulciando pile di documenti e studiando la carta universale per i diritti del fanciullo, approvata a New York nel 1989 e ratificata dall'Italia due anni dopo. E quando nelle gabbie dei maxiprocessi passava in rassegna i volti dei figli dei Pesce, dei Cordì, dei Piromalli, dei Bellocco, dei Mancuso, dei Facchineri e dei Mammoliti, giovani adulti tra i 18 e i 25 anni succeduti al vertice delle ‘ndrine ai padri, magari pluricondannati all'ergastolo, scuoteva la testa non si sa se per esprimere avvilimento o scovare tra i file della sua memoria un metodo, un cavillo, una legge che permettesse di tendere una mano amica a questi mafiosi bambini un attimo prima che immolassero le loro esistenze.
“Sono ribelli, violenti, con la passione delle armi e l’odio per lo Stato. Li imploro di andarsene, ma non mi ascoltano: se continuano così, saranno ammazzati ”
Proprio durante una di quelle udienze, una mamma, figlia, sorella e nuora di tre ‘ndranghetisti eliminati in un agguato di mafia (un altro fratello era stato giudicato per omicidio da minorenne e poi, da adulto, condannato all'ergastolo) trova il modo di avvicinare Di Bella e chiedergli, in lacrime, di aiutare suo figlio Rosario e il fratello minore di 13 anni: «Sono ribelli, violenti, con la passione delle armi e l'odio per lo Stato. Li imploro di andarsene, ma non mi ascoltano: se continuano così, saranno ammazzati come mio padre, mio fratello e mio suocero o incarcerati come i loro zii. Portateli via, insegnategli che esistono altri mondi, altri uomini, altre parole».
Comincia così la lenta risalita verso la luce di trenta ragazzi dei clan. Di Bella crea un protocollo di legalità in cui chiama a raccolta tutti gli alti gradi della magistratura reggina: finalmente c’è una regìa e c’è una squadra che condivide strategie, regole, obiettivi . Primum: togliere la patria potestà ai boss. È il 21 marzo del 2013, primo giorno di primavera. Nasce una task force formata da assistenti sociali, psicologi e carabinieri che bussano alle case dei mammasantissima quando esistono comprovati elementi che le regole educative obbediscano ai codici mafiosi.
Quei pochi ragazzi che non mostrano attitudine alla violenza e alla sopraffazione vengono raddrizzati a cinghiate. Prelevarli da casa e portarli altrove non è una passeggiata. Gli assistenti sociali e i magistrati ricevono minacce, lettere minatorie e proiettili. Il problema più grande arriva dopo: dove mandarli? Le case famiglia, certo, ma la ‘ndrangheta arriva dappertutto. Si firma un accordo con Addio Pizzo e Libera, l’associazione di don Ciotti. I ragazzi andranno al Nord, Emilia, Lombardia, Piemonte. Profumo di smog invece che di zagara, ma profumo di libertà. A sostenerli c’è l’avvocato Enza Rando, la stessa che si prese cura della figlia di Lea Garofalo dopo l'assassinio della madre.
La cura, direbbe Franco Battiato, è in dosi omeopatiche. Sembra il principio di Archimede: un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto. I corpi di questi ragazzi (e ragazze) subiscono una metamorfosi solo incrociando altri sguardi. Alcuni di loro, passati un po’ di mesi, incitano le mamme a raggiungerli e chiedono addirittura di cambiare cognome: è lo scacco matto alle ‘ndrine. Se madri e figli stanno dalla stessa parte, per i mammasantissima suonano le campane a morto. Don Italo Calabrò, un prete di strada che negli anni 70 affrontava le cosche calabresi a mani nude, lo ripeteva ai mafiosi ogni volta che poteva: «Voi non potete più uscire dalla ‘ndrangheta, ma almeno lasciate fuori i vostri figli».
Su al Nord, quarant’anni dopo, quei figli lavorano, scherzano e cucinano. La vita scorre nel silenzio della campagna emiliana e lombarda: nessuno urla, nessuno spara, nessuno minaccia, nessuno sottomette. E gli ex ragazzi delle ‘ndrine imparano che esiste un tempo e un luogo anche per l’amore.
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