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Governo, voto, legge elettorale: la mappa della crisi

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Governo, voto, legge elettorale: la mappa della crisi

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, arriva al Quirinale per le consultazioni
Il Presidente del Senato, Pietro Grasso, arriva al Quirinale per le consultazioni

Ventitré delegazioni, ventitré posizioni, neanche definite, sulla crisi di governo che si è aperta mercoledì con le dimissioni di Matteo Renzi, ventitré atteggiamenti rispetto alla legge elettorale, ventitré priorità rispetto alla situazione economica del Paese. Con almeno un obiettivo condiviso per il Paese: la crescita. Al Colle dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella sfileranno da stamattina le rappresentanze parlamentari, dimostrazione plastica dei distinguo politici e del bipolarismo che non c’è. Ma anche di una rete di alleanze che più mobile non si potrebbe. Con tutti che navigano a vista.

Diretta video delle consultazioni del presidente della Repubblica

Una maggioranza sulla carta esiste ancora, tra Pd, Ncd e Civici e Innovatori, a cui si aggiungono i verdiniani di Ala e le Autonomie: il fronte del Sì (fatta eccezione per la minoranza dem schierata per il No), uscito sonoramente sconfitto dal referendum. Renzi alla direzione del suo partito, chiusa senza dibattito, è stato chiaro: il Pd, in quanto partito di maggioranza relativa, non può esimersi dalla responsabilità. Ma in prima battuta ha chiesto la stessa responsabilità anche ai partiti del No, ipotizzando un governo aperto a chi intende farsi carico del peso di gestire la crisi. Una strada che appare però lastricata di ostacoli, a meno di sorprese da parte di Forza Italia: Silvio Berlusconi per ora bada prudentemente a mantenere unito il centrodestra dicendosi contrario a qualsiasi governo di scopo ma disponibile a un tavolo allargato per riformare la legge elettorale in senso proporzionale.

Gli altri principali partiti di opposizione, dal M5S alla Lega, bocciano del tutto l’idea di sostenere governissimi. E reclamano, anche tatticamente, il voto anticipato. Ipotesi che però non trova sponda altrove. Nonostante l’affermazione di Renzi secondo cui «il Pd non ha paura delle elezioni», tra i dem la prospettiva immediata delle urne non è maggioritaria. Non la vuole la corrente che si riconosce in Dario Franceschini, né quella dei Giovani Turchi di Matteo Orfini. La respinge il capogruppo a Palazzo Madama Luigi Zanda, che ieri al Corriere ha detto: «La maggioranza va ricercata con l’obiettivo di proseguire fino alla naturale conclusione della legislatura (nel 2018, ndr) ma, se non si trovano maggioranze, il voto è inevitabile». A vedere le elezioni come il fumo negli occhi è anche un ampio fronte trasversale, quel “partito della pensione” che punta a tirare avanti almeno fino a settembre 2017, quando i parlamentari alla prima legislatura ne matureranno il diritto.

Data la situazione, l’alternativa al governo di responsabilità nazionale sarebbe un nuovo esecutivo a guida Pd, come ha sottolineato ieri il bersaniano Roberto Speranza: «Il Pd ha insieme a Ncd e altri gruppi i numeri per governare. A un certo punto tornerà al Pd la palla e noi dovremo assumerci la responsabilità che deriva dai numeri parlamentari che abbiamo. Non possiamo guardare altrove: dobbiamo fare la legge elettorale e intanto anche qualche provvedimento che dimostri che abbiamo capito la lezione». Ma gli alleati centristi del Nuovo Centrodestra guidato da Angelino Alfano, che ha appena incassato il divorzio dall’Udc, sono in mezzo al guado: sanno che la sopravvivenza parlamentare a fianco del Pd potrebbe significare la morte politica alle future elezioni. Non avrebbero dubbi a partecipare a un governo di responsabilità se entrasse anche Fi. In caso contrario, l’opzione alternativa potrebbe essere un appoggio esterno. Perché in molti, da Maurizio Lupi a Roberto Formigoni, in vista del voto invitano a rientrare nell’alveo del centrodestra.

Molto - dalle alleanze ai tempi del voto - si giocherà sulla legge elettorale che verrà. Il Pd non è compatto: sul tavolo c’è l’Italicum modificato sulla base dell’intesa con la minoranza cuperliana, che prevede il superamento di ballottaggio e capilista bloccati e il premio di maggioranza alla coalizione. Ma le proposte si sprecano (dal Mattarellum 2.0 dei bersaniani al modello greco dei Giovani Turchi) e, soprattutto, gli scenari dopo il referendum sono cambiati. Se il segretario della Lega Matteo Salvini ha ribadito anche ieri di voler andare subito alle elezioni con qualunque legge elettorale (anche se alcuni dei suoi sono in contatto con Fi per valutare il Verdinellum, metà maggioritario e metà proporzionale), Berlusconi ha rilanciato il proporzionale, con soglia di sbarramento intorno al 5% e un piccolo premio di maggioranza. Alle soglie alte dicono no, per ovvi motivi, gli alfaniani. Giorgia Meloni (Fdi) preme per una proposta targata centrodestra. Ballano da soli i Cinque Stelle che rifiutano alleanze e governi di ogni tipo e che invocano il ritorno alle urne con l’Italicum che uscirà dalla decisione della Consulta del 24 gennaio, esteso anche al Senato. Qualunque siano le modifiche - è la tesi - sarà una legge costituzionale.

Forse al momento l’unico denominatore comune tra i partiti nella mappa della crisi è l’urgenza di rilanciare il Paese, avvertita da tutti. Anche se le soluzioni sono diverse. Renzi, prima del referendum, aveva detto che le priorità dopo il voto sarebbero rimaste le banche (che impensieriscono i mercati e l’Europa) e una politica strategica per la crescita. La minoranza dem, da sempre critica su Jobs Act e Buona Scuola, rilancia su lavoro e istruzione. Ncd tiene dritta la barra su misure per le famiglie e riduzione delle tasse. Quest’ultimo resta l’intervento principe per Fi (che vorrebbe un limite fissato in Costituzione) e per la Lega che, con Fdi, scommette sulla difesa del made in Italy e il contrasto alla globalizzazione incontrollata e al “dispendio” di fondi per l’accoglienza ai migranti. Guardando alle Pmi e all’economia reale. Target prediletto anche dai Cinque Stelle, che hanno tre priorità: reddito di cittadinanza contro la povertà che rilanci il lavoro, detassazione mirata sulle Pmi e investimenti pubblici. Ma non sulle grandi opere.

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