Lifestyle

Il caso Re Cecconi, nuove ipotesi su una morte misteriosa

  • Abbonati
  • Accedi
libri

Il caso Re Cecconi, nuove ipotesi su una morte misteriosa

In quel 1977 di P38, rapine e terrore, erano più i giorni di ordinaria follia che tutti gli altri. Le Br non avevano ancora alzato il tiro, sferrato “l'attacco al cuore dello Stato”, ma Autonomia Operaia nei cortei a Milano sparava ad altezza uomo, uccideva poliziotti. La follia a Roma, nella Roma delle scorribande a mano armata, è invece rimasta appesa a un grappolo di dubbi in un freddo 18 gennaio di sangue. Nella borghese e super-trendy Collina Fleming. Dove Luciano Re Cecconi, centrocampista della Lazio e della Nazionale, “interno” dai polmoni grandi e i muscoli d'acciaio, muore per un colpo di pistola sparato da Bruno Tabocchini, un orafo che lavora in via Francesco Saverio Nitti.

Muore perché il calciatore – raccontano – stava fingendo un furto proprio in quella gioielleria, e aveva fatto irruzione gridando: «Fermi tutti, questa è una rapina!» Ma il caso non fu mai chiaro e le testimonianze, dopo tanti anni, restano ancora contrastanti. Luciano Re Cecconi nasce a Nerviano, un paese alle porte di Milano. Lascia la vita giovanissimo, a 28 anni. Spezzato da un colpo forse fortuito, di certo assurdo. Bruno Tabocchini convinse i magistrati di aver sparato perché intimorito, condizionato dalle due precedenti rapine subite, convinto di trovarsi di fronte un rapinatore dopo il «fermi tutti questa è una rapina», frase che secondo le ultime testimonianze probabilmente non venne mai pronunciata. L'orafo spara nonostante il giocatore della Nazionale fosse entrato nella gioielleria accompagnato dall'amico profumiere Giorgio Fraticcioli e dal compagno di squadra Pietro Ghedin, personaggi noti in quel quartiere di vip e laziali. La sua Walther calibro 7,65, prima di uccidere, fu inizialmente puntata a Ghedin, un'altra stranezza mai chiarita.

Re Cecconi viene colpito al petto. Ferito a terra, prima di morire e lasciare la moglie Cesarina e due figli piccoli, implora all'amico Ghedin di non lasciarlo solo. Un urlo rimasto inascoltato per quarant'anni. A cui il giornalista-scrittore Guy Chiappaventi ha ridato decibel nel suo ultimo libro “Aveva un volto bianco e tirato”, edizioni Tunuè. Un opera a metà tra biografia, inchiesta e memoria storico/ sociologica di quegli anni. Il titolo riprende la dichiarazione resa dal Tabocchini agli inquirenti: fu il volto «bianco e tirato» di Re Cecconi che lo indusse a sparare a uno dei simboli di quella Lazio. All'unico di quella squadra che detestava le pistole. Il caso divenne politico. «Non si spara al cuore di una persona a occhi chiusi», disse Bettino Craxi in seguito all'assoluzione del gioielliere «per aver agito in stato di legittima difesa putativa». «È stata una sentenza coraggiosa perché attraverso un procedimento logico è stata correttamente applicata una norma fondamentale», ribattè il vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, Giancarlo De Carolis.

La cosa fu fatta passare subito come la sbruffonata di un calciatore. La “sciocca trovata” di uno dei reduci di quell'incredibile, epica e fuori dalle righe Lazio dello scudetto 1973/1974. Squadra tosta, eccessiva, spaccata in due bande contrapposte e nemiche. Che si detestavano. Da una parte Wilson, Oddi e Chinaglia, dall'altra Martini, Frustalupi e Re Cecconi. Una rosa di uomini duri, border line, che negli allenamenti si picchiavano tra loro. Ma alla domenica in campo erano sempre uniti, compattati da Tommaso Maestrelli, allenatore- psicologo scomparso appena due anni dopo quell'irripetibile scudetto. I “ragazzacci” di Maestrelli erano difficili da controllare, anche fuori dal campo. Se ne andavano in giro armati di pistole. Il primo a lanciare la “moda” fu Sergio Petrelli, il terzino. Durante i ritiri, dalle finestre dell'Hotel Americana, sull'Aurelia, sparavano ai lampioni, di sera facevano gli spacconi nel locale “Jackie O'”. Erano quasi tutti simpatizzanti dell'estrema destra, occhiali scuri- fashion, si ispiravano alla Banda della Magliana. Lo scherzetto della finta rapina era diventato quasi un gioco abituale per molti giocatori di quella Lazio.

«Qualche giorno prima di Natale e anche dieci giorni fa l'avevano ripetuto proprio in questo negozio; ovviamente noi conosciamo i giocatori e soprattutto non siamo armati», raccontò ai giornalisti dopo la tragedia Ferdinando Bezzi, fratello e socio di Gigi, allora dirigente dei biancoazzurri. Il libro di Chiappaventi ripercorre le reazioni di quei giorni del ‘77, l'inconsueta velocità dell'istruttoria, la domanda basica che accompagna da sempre l'omicidio Re Cecconi. Davvero il calciatore e l'orafo che lo uccise, Bruno Tabocchini, non si erano mai visti prima? L'ipotesi- si legge nel testo- venne presa in considerazione anche dalla procura durante l'inchiesta, ma non ha mai trovato conferma e venne scartata. Eppure Re Cecconi passava dai negozi di via Flaminia Vecchia praticamente ogni sera.
Era famoso, molto riconoscibile per quei capelli biondi, quasi albini.

«Il gioielliere- scrisse in quei giorni La Gazzetta dello Sport stando alle testimonianze della gente del quartiere Fleming- era forse l'unico della zona a ignorare l'esistenza della folta colonia dei giocatori laziali che abitano dalle parti di Tor di Quinto (dove allora si allenava la squadra, ndr). Possibile che Luciano non avesse calcolato che era Roma ed era il 1977? Che c'era una rapina a sera e gli orafi e i tabaccai tenevano la pistola sotto il bancone e senza sicura?»

Re Cecconi lo chiamavano “il saggio”. Perché in ogni circostanza, specie in quelle in cui tutti perdono la testa, sapeva essere logico, razionale. Sapeva essere gioviale e cordiale, senza oltrepassare mai la misura. Luciano era quello che, solo per amicizia, aveva seguito il compagno di squadra Gigi Martini al corso di paracadutismo. Sull'aereo, prima di buttarsi per la prima volta, chiese al compagno “e se poi il paracadute non si apre?” “E adesso ci pensi? – gli rispose Martini.

In tutti questi anni i parenti di Re Cecconi non hanno mai cercato Tabocchini, Tabocchini non ha mai cercato loro. Ma non c'è rancore nei parenti della vittima. Quello che li schiaccia è l'immagine, l'etichetta che è rimasta attaccata a Luciano. «Hanno costruito addosso a mio padre questa immagine, sono riusciti a farlo passare per un cretino – ha sempre detto il figlio Stefano, che all'epoca aveva due anni – ma tutti di lui conoscono solo il primo tempo, manca il secondo. Nessuno che si faccia domande, che indaghi, che cerchi un'altra verità. Se avesse giocato nella Juventus le cose al processo sarebbero andate allo stesso modo?». Insomma, conveniva a tutti chiudere quella storia velocemente. «Lui era morto e i gioiellieri - ricorda Stefano- erano un potere forte, una lobby schiacciata dalla violenza di quegli anni. L'opinione pubblica era in larga parte innocentista e voleva l'assoluzione di Tabocchini. Perché non sono stati fatti gli altri gradi di giudizio?». L'orafo riaprì la gioielleria nel dicembre del 1977, a undici mesi di distanza dalla morte di Re Cecconi. Ha cessato l'attività nel 2002, quando è andato in pensione. Ripetendo sempre di non aver mai visto una partita di pallone. Di non aver mai visto la foto dello scudetto della Lazio del 1974. Con un calciatore, solo uno, biondo come il grano di giugno.

© Riproduzione riservata