Il vero limite di Roberto Baggio è stato quello di essere nato in Italia: fosse stato brasiliano, o argentino, nessuno avrebbe mai osato dire di lui che era un «coniglio bagnato» (l’avvocato Agnelli) oppure un «nove e mezzo» (Michel Platini). Sarebbe stato semplicemente celebrato per quello che era, uno dei più grandi talenti che abbia mai calcato un campo da calcio. Nonostante un infortunio, a soli 18 anni, che lo ha costretto a uno stop di quasi due anni. Carriera finita, dicevano allora. Invece...
Invece è tornato. Ha giocato. Ha vinto. Capace di incantare, di stupire, di far dire a un certo Diego Armando Maradona: «Se mi voglio divertire con una partita di calcio guardo quelle dove gioca Roberto Baggio. È un genio». Purtoppo per lui niente Brasile o Argentina: cinquant’anni fa, il 18 febbraio 1967, è nato in Italia. Dove si fatica a riconoscere il talento soprattutto quando, come nel suo caso, è abbinato a una caratteristica che dalle nostre parti viene mal digerita: l’indipendenza, la capacità di pensare in proprio, l’essere fuori dal coro. E tutto è diventato più difficile.
Del Mondiale del 1994 si ricorda il suo rigore sbagliato, quello che per molti “storici” ci ha fatto perdere il titolo: la verità è che prima di lui avevano già sbagliato Baresi e Massaro, che il suo gol non ci avrebbe consegnato la Coppa, che un altro tiro brasiliano messo a segno avrebbe portato esattamente alla stessa conclusione. Di quel Mondiale bisognerebbe piuttosto ricordare che a tirare quei rigori, senza Baggio, l’Italia non ci sarebbe mai arrivata. Niente gol del pareggio inventato a un minuto dalla fine contro la Nigeria, niente supplementari, niente passaggio ai quarti, niente gol decisivo contro la Spagna, niente semifinale, niente doppietta contro la Bulgaria, niente finale. Niente di niente. E invece, solo quel maledetto rigore: di cui Baggio, invece di “scansarsi” come avrebbero fatto i veri conigli bagnati, si è sempre preso la totale responsabilità.
Un campione senza maglia, anche se di maglie ne ha indossate tante: Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia. Dove «senza maglia» vuol dire che è sempre stato amato ovunque, al di là dei colori, perché rappresentava l’essenza stessa del calcio. Il saper fare, proprio come Maradona o Pelè, la «quinta cosa» quando i giocatori normali ne fanno due, i campioni tre e i fuoriclasse quattro.
Dritto per la sua strada, capace di sostenere il confronto con qualsiasi allenatore, a partire da Ulivieri e Lippi, con cui il rapporto è stato quantomeno burrascoso. Baggio ha sempre seguito una regola inderogabile: essere Baggio. Coerente, sincero, pronto a sopportare qualsiasi sacrificio, ma non a mentire a se stesso, prima ancora che agli altri. A finire ai margini del grande calcio, in provincia, piuttosto che cercare un compromesso miserevolmente travestito da mediazione.
Nel 1993 è stato uno dei quattro italiani a vincere il Pallone d’Oro, un premio che dalle nostre parti è raro quasi quanto l’Araba Fenice. Nel 2010 è stato il primo (e unico) calciatore al mondo a ricevere il World Peace Award, scelto dopo una votazione tra Premi Nobel, per il suo impegno a favore dei diritti umani. Indovinate a cosa tiene di più...
“Se mi voglio divertire con una partita di calcio guardo quelle dove gioca Roberto Baggio. È un genio”
Diego Armando Maradona
È il miglior marcatore azzurro nella storia dei Mondiali, l’unico ad aver segnato in tre edizioni diverse (1990, 94 e 98). Solo la testardaggine di Trapattoni gli ha negato di giocare nell’edizione 2002, ampiamente meritata sul campo dopo aver superato l’ennesimo infortunio: rottura del legamento crociato anteriore e lesione del menisco interno del ginocchio sinistro. Lì è arrivato un altro record: solo 77 giorni per rientrare in campo e, a completamento del miracolo, per mettere a segno una doppietta contro la Fiorentina. Ma ammettiamolo, per il comune pensiero italiano sarebbe stato un po’ troppo convocare un Baggio vecchio e con la maglia del Brescia...
Già! Il Brescia. La conclusione di un sogno durato 16 anni: accolto dai compagni come il Messia, come quando sui campi dell’oratorio arriva il più forte di tutti e tu non ci credi; sorridi mentre fa cose impossibili, che non riesci nemmeno a immaginare. Un gol su tutti, quello contro la Juventus: un tocco leggero a domare un pallone che gli arrivava alle spalle piovendo da quaranta metri. Senza guardare indietro, con calma, mettendo a sedere Van der Sar come un portierino qualsiasi. Un Brescia arrivato al settimo posto in classifica nel campionato 2000-2001, alle soglie dell’Europa: semplicemente il miglior risultato di sempre per la società.
Quando ha giocato l’ultima partita, davanti ai tifosi ha fatto esporre uno striscione: «Oggi sono io che ringrazio voi». Ha detto basta, e basta è stato. Ha chiuso con il calcio, nonostante in molti lo cercassero per utilizzarne il nome: Baggio, si sa, è sempre Baggio. Ha ceduto una volta sola, dicendo sì alla Federazione per amore di quel colore Azzurro indossato 56 volte. Appena si è reso conto che era solo un incarico di facciata, ha detto stop.
Di lui si potrebbero scrivere enciclopedie su come toccava il pallone, su come dribblava, sulla precisione con cui batteva i calci di punizione: allenandosi fin da ragazzino, con le sagome di legno a fare barriera, non tanto a infilare una porta larga sette metri, quanto piuttosto a colpire i pochi centimetri del palo. Perfezione assoluta. Eppure l’uomo ha superato il campione, anche se ce ne siamo resi conto troppo tardi.
Ci manca, Roberto Baggio, cavolo se ci manca. Con una maglia qualsiasi, ma ridatecelo. Fatelo entrare due minuti, tre al massimo per rispetto delle sue ginocchia: giusto il tempo di un dribbling, un’invenzione, una magia. Invece ci ritroviamo tutti un po’ orfani del nostro meraviglioso «nove e mezzo», che se fosse nato in Brasile o in Argentina sarebbe ancora in Nazionale, a cinquant’anni, a furor di popolo. Per questo, se pensiamo a un campo da calcio, non importa quanti giocatori ci siano sul terreno di gioco: perché senza Roberto Baggio, là in mezzo, ci sarà sempre un vuoto incolmabile.
P.S. Per capire meglio quanto sia stato duro e difficile, per Roberto Baggio, essere Roberto Baggio, ho preso a prestito le sue parole, tratte dall’autobiografia «Una porta nel cielo». Quando le ho lette per la prima volta, nell’ormai lontano 2002, non ho potuto fare a meno di amare ancora di più questo straordinario campione.
«Mi hanno chiamato malato immaginario. Non hanno mai saputo che io, tutta la mia carriera da professionista, l’ho giocata con una gamba e mezza. Migliaia di ore di lavoro per tenere viva una gamba che, fosse per lei, si rimpicciolirebbe ogni giorno. L’ho giocata senza stare bene del tutto, mai, che se giocassi le partite solo quando mi sento al cento per cento giocherei tre partite l’anno. L’ho giocata con la speranza assurda, per un giocatore di talento, di trovare terreni allentati, magari un po’ fangosi così che quel ginocchio destro soffrisse meno, avesse la la possibilità di appoggiarsi su una superficie più morbida. L’importante era che non fosse dura, con quel maledetto effetto rimbalzo, quella rotula che non ne vuol sapere di darmi tregua. Da quando il pubblico mi conosce convivo con il dolore, ducentoventi punti e un ginocchio a orologeria. Il mio dribbling migliore è stato andare avanti, nonostante tutto. Fregandomene delle chiacchiere, ponendomi ogni giorno davanti nuovi obiettivi. E sì, lo penso ancora, quel dribbling, quel doppio passo, quella veronica con cui ho superato un ostacolo apparentemente insormontabile - e ci ho messo due anni, due lunghissimi anni, due anni comunque da vivere - sono stati un capolavoro di volontà e passione. Ne vado fiero».
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