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Migranti, gli «effetti indesiderati» dell’approccio Ue nel…

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«agevola i trafficanti»

Migranti, gli «effetti indesiderati» dell’approccio Ue nel Mediterraneo. «Agevola i trafficanti»

C’è una data precisa che ha segnato un punto di svolta nella crisi dei migranti attraverso il Mediterraneo e nella gestione da parte dell’Unione europea: è il 22 giugno 2015 quando, in due naufragi, tra morti accertati e dispersi, si stima che abbiano perso la vita in mare circa 1200 persone, migranti irregolari o richiedenti asilo. Quel dramma, che non era il primo e di cui l’opinione pubblica prese coscienza solo dopo qualche giorno, convinse i partner Ue che l’Italia non poteva essere lasciata sola ad affrontare ciò che stava accadendo a poche centinaia di miglia dalle coste europee.

In pochi giorni diventò operativa EU NavFor Med Operation divenuta poi EUNav For Sophia. Sophia è una bimba nata il 24 agosto di quell'anno, salvata insieme alla mamma somala e ad altri 453 migranti da una fregata tedesca della task foce europea: «Per onorare le vite delle persone che stiamo salvando, le vite della gente che vogliamo proteggere» disse Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli Affari esterni e la Sicurezza, nel proporre il cambio di nome.

Il ruolo delle Ong dopo Mare Nostrum
Fino ad allora, dal 16 ottobre 2013, il controllo delle frontiere con compiti umanitari era affidato all'operazione Mare Nostrum, sotto la responsabilità della Marina militare italiana: Marina militare, Guardia di Finanza e Guardia Costiera si accollavano tre quarti delle operazioni di salvataggio. Del restante 25% si facevano carico le navi commerciali di transito nell'area. A partire da agosto 2014 cominciano ad entrare in campo le Organizzazioni non governative. La prima è MOAS (Migrant Offshore Aid Station) fondata da Regina e Christopher Catrambone. Filantropi, li definisce il think tank interno della Commissione europea che a febbraio ha pubblicato una nota strategica in cui fa il punto sull’immigrazione irregolare nel Mediterraneo, individuando meriti e soprattutto riconoscendo i limiti delle operazioni di pattugliamento del Mediterraneo sotto la bandiera europea nell'ultimo anno e mezzo, con l’intento di dare qualche linea di intervento per il futuro.

A MOAS si sono aggiunte altre Ong: a febbraio scorso erano in tutto nove: Medici senza frontiere, Sea-Watch, SOS MEditerranée, Pro-Activa, Sea-Eye, Jugend Rettet, Refugee Boat Foundation e Save the Children. Dispongono di 14 imbarcazioni e due droni per le operazioni di SAR (Search and Rescue) e nel 2016 hanno effettuato il 22% delle operazioni di salvataggio. La maggior parte degli interventi è ancora a carico delle forze italiane, GdF (26%) e Guardia costiera (20%) mentre Frontex-Triton interviene nell'8% dei casi ed EUNav For Sophia è al 17-18%. Solo l'operazione Frontex ha salvato 66.718 persone, di cui 31.402 sono stati sbarcati nei porti italiani e gli altri in Grecia. Non c'è nel rapporto Epsc un numero assoluto degli interventi, ma siamo nell'ordine di alcune centinaia.

IL FLUSSO DI MIGRANTI IRREGOLARI E RIFUGIATI VERSO L'ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO CENTRALE
Fonte: EPSC e Médecins Sans Frontières

C’è però il numero degli arrivi in Italia che nel 2016 sono stati 181.436 contro i 153.842 del 2015 e i 170mila dell'anno precedente: un'impennata rispetto a quelli registrati tra il 2011 e il 2013. Con gli arrivi sono cresciuti anche i morti e i dispersi: 4579 solo l’anno scorso contro i 644 del 2014.

Gli «effetti indesiderati» di EUNav For Sofhia
In pratica, l'operazione EUNav For Sophia e la crescita delle attività delle Ong - secondo gli esperti della Commissione – «hanno spostato geograficamente» le operazioni di salvataggio che si sono allontanate dalle coste italiane per andare verso le acque libiche e, nel caso di alcune Ong – afferma il rapporto – «entrando addirittura nelle acque territoriali della Libia». Dalla cartina degli interventi pubblicata nel rapporto, questo spostamento è molto evidente: nei primi sette mesi del 2016 i salvataggi si sono concentrati a cavallo delle acque territoriali nell’area davanti a Sabratah. Molte meno sono state le operazioni nella porzione di mare davanti a Tajurah, e in ogni caso fuori dalle acque territoriali. Prima di gennaio 2016 gli interventi avvenivano solo in acque internazionali. Se da un lato hanno salvato migliaia di vite umane e reso meno gravosi gli obblighi di soccorso in mare per le navi mercantili, le nuove modalità di intervento europee nel Mediterraneo hanno provocato effetti collaterali «indesiderati».

SALVATAGGI SEMPRE PIÙ VICINI ALLA LIBIA
Fonte: Frontex

È cambiato il business model dei trafficanti
«È profondamente cambiato il business model dei trafficanti di uomini rendendo meno costoso (ma non per questo meno rischioso) raggiungere l’Unione europea». Fino al 2014, infatti, i trafficanti utilizzavano imbarcazioni di grandi dimensioni, pescherecci o mercantili dismessi, pilotati dagli stessi “scafisti” e che nella maggior parte dei casi erano in condizioni di raggiungere le coste italiane senza bisogno di soccorsi. Dal 2016 – ricostruisce la nota – i trafficanti di uomini caricano le persone su «imbarcazioni gonfiabili da quattro soldi, del tutto inadeguate alla navigazione». Canotti più che gommoni, «che non hanno alcuna possibilità di raggiungere l'Italia». Secondo i dati di Frontex-Triton e del Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, le imbarcazioni di questo tipo sono circa il 70%. Inoltre, scrive sempre il think tank della Commissione Ue, «i trafficanti non salgono più a bordo, ma affidano la navigazione ai migranti che nella maggior parte dei casi non hanno alcuna esperienza, dalle coste libiche fino al punto in cui possono chiedere aiuto attraverso i telefoni satellitari e attendere i soccorsi».

LA DISTRIBUZIONE DEGLI INTERVENTI NEL 2016
In % (Fonte: Centro coordinamento salvataggi marittimi Roma, Frontex, EU Nav for Sophia, Medici senza frontiere)

Insomma, lo scafista classico non esiste più e il trafficante corre meno rischi, ha meno costi e maggiori guadagni, sulla pelle di decine di migliaia di disperati. Inesperienza in mare e imbarcazioni di fortuna creano un mix micidiale. Una conferma arriva dal calo costante del numero dei trafficanti arrestati durante i salvataggi.

I paradossi di una politica da rivedere
Ma non è questo l'unico assurdo paradosso: per ammissione della stessa Commissione, «la maggior parte degli immigrati irregolari e dei rifugiati sta arrivando in Italia con le navi fornite dall'Unione europea, dalla Guardia costiera e dalle Ong, agevolando quindi il lavoro dei trafficanti». Può darsi – ma resta ancora tutto da dimostrare – che qualche Ong non stia rispettando le regole d'ingaggio, ma non c’è bisogno del polverone tutto italiano di cui si parla da giorni per capire che è da rivedere profondamente l’intera politica europea sui migranti. E a riconoscerlo è proprio la Ue in questa analisi richiesta dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, che ha soprattutto l’obiettivo di guardare al futuro per individuare alcune «azioni urgenti necessarie» per arginare i transiti irregolari. «La storia recente ha dimostrato che limitarsi un approccio puramente umanitario e concentrato solo sul salvataggio di coloro che rischiano di affogare in mare, non porterà ad alcuna soluzione di lungo termine per alleviare le sofferenze delle migliaia di migranti che ogni giorno rischiano la vita sperando in una vita migliore. Anzi, l’aumento delle vittime e degli arrivi dimostra che questo approccio ha – involontariamente – incoraggiato i trafficanti ad adottare nuove strategie che consentono loro di avere maggiori profitti, esponendo i migranti a rischi sempre più alti». Analisi, questa, che suona come un'autocritica di Bruxelles e che in parte coincide con le affermazioni di Medici Senza Frontiere, mercoledì in una audizione parlamentare: «Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini continuano a prendere il mare affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Non lo fanno perché potrebbero esserci delle barche a salvarli al largo della Libia, ma perché non hanno altra scelta, e le politiche europee non offrono loro alcuna alternativa. Non sono le organizzazioni umanitarie, ma le politiche europee a favorire i trafficanti» ha detto il presidente di MSF, Loris De Filippi.

Cinque opzioni, tra priorità politiche e diritti umani
Per l’Unione europea affrontare la situazione è «una priorità politica evidente» riconosce Bruxelles, e nonostante non sarà mai possibile impedire i passaggi irregolari attraverso il Mediterraneo, qualcosa si può fare, «sempre nel pieno rispetto dei diritti umani, dei valori europei e dei doveri umanitari nei confronti di chi ha bisogno di protezione». Le opzioni individuate dagli esperti della Commissione sono cinque, nessuna delle quali esclude l’altra. La prima, considerata la più efficace sotto il profilo dei controlli delle frontiere, non può prescindere da un accordo con la Libia (e possibilmente anche con l’Egitto) e ipotizza che le richieste di asilo negli Stati Ue vengano registrate e valutate in Libia dall’ufficio dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) o dall’Ufficio europeo per il diritto d'asilo. Anche in rimpatri in paesi terzi potrebbero partire dalla Libia. La seconda opzione, più realistica nel breve termine, è di dare assistenza alla Libia per migliorare la gestione dei flussi migratori. Oltre all'addestramento della Guardia costiera e all'assistenza nel controllo dei confini terrestri, prevede anche la «chiusura dei campi di detenzione, controllate dalle reti di trafficanti in cui le condizioni di vita sono terribili». Queste prime due strade hanno evidenti limiti nella situazione politica libica, del tutto frammentata. In ogni caso, «nell'immediato le operazioni di soccorso dovrebbero proseguire e nel frattempo tutti gli attori coinvolti, comprese le Ong più rilevanti – sostiene lo studio – dovrebbero avviare un confronto sulle opzioni possibili e sulle loro implicazioni». La terza opzione sarebbe quella di sbarcare i migranti e rifugiati salvati dal mare in paesi diversi dalla Libia e che non appartengano alla Ue né all’area Schengen e in cui i diritti umani siano comunque garantiti. Ma la scontata riluttanza di questi paesi non è un ostacolo da poco e per superarlo difficilmente basteranno solo compensazioni economiche. La quarta opzione coinvolge direttamente l’Italia e prevede di sbarcare i migranti nei porti italiani ma migliorando l'efficienza degli hot spot. «Oltre a non ridurre il numero di coloro che tenteranno la traversata del Canale di Sicilia, questa soluzione non abbassa la pressione sull’Italia che sta ancora aspettando una risposta concreta alla sua legittima richiesta di una soluzione efficace a livello europeo» scrive l'Epsc della Commissione che ricorda anche «l’assenza di un’efficace politica europea dei rimpatri anche per la difficoltà di stabilire identità e nazionalità. Ultimo punto, ma forse il più importante, è quello dei paesi di origine dei migranti: «Solo affrontando in modo proattivo la situazione nei loro paesi si può immaginare una reale soluzione di lungo termine». A giugno dello scorso anno la Ue ha lanciato il Partnership Framework che prevede diversi strumenti, dal dialogo ai visti, dai permessi di lavoro agli aiuti allo sviluppo. Poi è arrivato il “Piano Juncker per l’Africa”. Ma è illusorio attendersi a breve risultati concreti.

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