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Nostalgia per i numeri 10, artisti di un calcio in via d’estinzione

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Nostalgia per i numeri 10, artisti di un calcio in via d’estinzione

Rivera non c'è da un pezzo, El Pibe Maradona pure. Baggio e Del Piero smarcavano di fino che sembra appena ieri, e ora che anche Francesco Totti smette, che ne sarà dei numeri 10 di professione, gamba e magia? Torneranno mai gli artisti della “trequarti”, i poeti (semi) estinti di questo calcio moderno che non prevede più registi avanzati, rifinitori per vocazione, anime pregne di follia?

Metamorfosi pallonare, nostalgia canaglia. I “Dieci” sono stati per tanto tempo, per un secolo, l'espressione massima del talento. L'anticamera del goal. L'istante prima del godimento. Un ruolo nobile, primario. Un valore assoluto, imprescindibile in ogni squadra sbarcata nell'epica, nella storia, nell'irripetibile da raccontare. I numeri dieci erano pochi, tutti speciali, nessuno da scordare. Ce li ricorda il libro di Giuseppe Esposito “Sirio” “La maglia magica - elogio dei grandi numeri dieci” (Edizioni Della Sera), una raccolta di autori che ripercorre vita, estro e miracoli dei “più grandi” tra i grandi che hanno indossato la fatidica maglia. Si parte con Giuseppe Meazza e Valentino Mazzola, passando da Zidane e Crujff, fino a planare ai giorni nostri, con i Neymar e i Rooney, che tanto “Dieci” non sono poi.

Il trequartista che indossava (e indossa) quel numero è sempre stato un marchio qualitativo di fabbrica, il football che si fa arte. Una fenomenologia all’interno del fenomeno calcio. Ma anche la proiezione dei sogni, dell’estetica nei muscoli vellutati e spesso fragili (contraddizioni di vita) dei “Dieci”. Che ora sono pochi, non nascono, trovano poco spazio nel football imballato nella corsa, nella tattica, nel marketing dei tatuaggi. «La globalizzazione- spiega Darwin Pastorin nella prefazione del bellissimo libro- ha trasformato il pallone, un semplice pallone, in un oggetto multifunzionale. Tra le pieghe della modernità però è ancora possibile trovare lampi di poesia. In special modo se volgiamo lo sguardo al passato, alle storie di ieri. Quando i numeri sulle maglie narravano non solo i ruoli, ma anche gli uomini, la loro consapevolezza, tra volontà e rappresentazione».

I numeri sulla divisa sociale, marchio di riconoscimento umano, di peculiarità nell'azione pedatoria. «Il numero 1- si legge nella prefazione- era il portiere, primo e unico in tutti i sensi. Un po' folle ed un po' razionale, di certo mai banale. Il numero 7 era l'ala destra, il funambolo del dribbling. Micidiale come una stilettata, spesso un eroe tragico come Mané Garrincha, l'angelo dalle gambe storte. O come George Best e Gigi Maroni, la farfalla granata che nella sua solitudine, lungo la fascia, componeva versi ribelli. La fantasia e l'estetica appartenevano (e appartengono) invece al numero 10. Il fulcro del gioco, il regista, il “rebelde” dal tunnel umiliante. Poteva essere, il “dieci”, elegante come Gianni Rivera (l'abatino breriano, artefice principale dell'omerica disfida Italia – Germania 4-3, semifinale del mundial messicano del 1970) o cinico ed imprevedibile come Omar Sivori, l'argentino dai capelli arruffati, calzettoni abbassati e quel tocco da beffardo realismo. Il 10 accendeva l'immaginazione, quel numero trasportava il calcio nell'Olimpo di tutte le meraviglie del possibile e dell'impossibile. Era pura e, nel contempo, sfrontata bellezza».

In quell'Eldorado degli Anni Ottanta, abbiamo avuto la fortuna di ammirare nel nostro campionato (e non solo) artisti assoluti come Maradona, Zico e Platini e il campione del mondo Giancarlo Antognoni. Ogni partita, un'opera d'arte, una sfida tra “Dieci”. Ecco trasformarsi in calciatori Borges, Drummond de Andrade, Victor Hugo e Calvino. Autentica letteratura. Che partiva sempre da lontano, prima del fischio d'inizio, prima che il sogno prendesse forma. Come quel bollente pomeriggio di Napoli del 5 luglio 1984, ricordato nel libro dallo scrittore Maurizio De Giovanni. Era il giorno della presentazione di Diego Armando Maradona, in un S.Paolo strapieno di gente, di occhi luccicanti. «Dalla tribuna arrivò un pallone a Diego. Come un messaggio, una richiesta. E il pallone andò docilmente ad accoccolarsi sul suo piede sinistro. Addomesticato, tranquillo. Vent'anni dopo, ricordandolo, un meccanico in pensione disse: «Dotto', io l'ho visto con gli occhi miei. Lui andava avanti e il pallone lo seguiva. Gli andava appresso. Comm'a nu cacciuttiello. Lui avanti… e il Pallone appresso».

Gianluca Morozzi ha invece narrato le gesta di Roberto Baggio nel suo anno a Bologna. Allenatore Renzo Ulivieri. “Codino” quell'anno venne (momentaneamente) accantonato dal gotha del calcio. «Roby a Vicenza mise a sedere due difensori in un fazzoletto. Spostava il pallone magicamente dal destro al sinistro, fece partire una parabola disegnata da Picasso che andò a spegnersi alla perfezione in rete. Baggio intercettò contro il Bari un pallone fuori area, calciò un tracciante nell'unico spazio possibile tra tutti quei difensori». Alla fine di quella stagione il fuoriclasse, che tra le tante della sua carriera ci portò anche alla finale del mondiale Usa '94, segnò ventidue gol con la maglia del Bologna. Riportando la squadra emiliana in Europa, dopo sette lunghi anni. «E dopo aver fatto cantare il pallone più e più volte, da settembre fino a maggio». Melodie da numero dieci. Un po' introvabili nel football più rap che rock di oggi. Un calcio con tante band di livello, ma pochi solisti unici, intramontabili.

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