Non l'avremmo mai voluto, ma purtroppo ci siamo arrivati. L'ultimo grande del calcio italiano (i portieri, con Buffon, fanno categoria a parte…) è arrivato al capolinea. Francesco Totti, detto “Er Pupone”, si presenta all'ultimo appuntamento con la maglia della Roma e, speriamo, all'ultimo appuntamento con il calcio giocato. Lo dico con le lacrime agli occhi, ma invoco l'intervento della divina Eupalla perché lo induca a dire basta.
Totti non è un giocatore normale, non è un campione, non è un fuoriclasse. Totti è uno dei pochissimi che, nella storia di questo bellissimo sport, sia riuscito ad andare al di là della maglia del club (anche se ne ha sempre indossata una sola, quella giallorossa) per diventare il campione di tutti. Rivera, Zoff, Baggio, Facchetti e pochi altri possono vantare lo stesso onore.
Come lui, tenacemente attaccato ai colori sociali e pronto a rinunciare a tutto il mondo, un altro grandissimo: Gigi Riva, Rombo di tuono. Il Cagliari nell'anima, più sardo dei sardi. Uno scudetto vinto, tantissimi persi per non essersi mai mosso dall'isola dei quattro mori.
Totti ha vinto un solo scudetto, poco per la sua immensa classe: proprio come Gigi Riva. Ha vinto un Mondiale, nel 2006, e la finale di Berlino è coincisa con l'ultima apparizione in azzurro. Un addio bellissimo, struggente, come tutti vorrebbero: baciando il trofeo più importante, quello che ogni bambino sogna di alzare al cielo quando inizia a tirare i primi timidi calci a quel meraviglioso pallone fatto di cuoio, fango e sudore.
Totti ha vinto poco, ma ha avuto tutto: ha giocato nella sua città e nella sua squadra del cuore. Ne è diventato l'idolo. Ha cumulato record su record, ha infilato il pallone alle spalle dei portieri più forti del mondo. Ha innalzato i rigori tirati con “er cucchiaio” a livelli di arte pura. Ha messo d'accordo Pelé e Maradona, che lo hanno più volte indicato come uno dei grandissimi di ogni tempo. Stadi interi si sono alzati ad applaudirlo, a rendergli omaggio: rivale finché vuoi, ma che giocatore. Ha danzato calcio, inventato dribbling, eseguito la quarta cosa mentre di solito i giocatori normali fanno la prima, quelli buoni la seconda e i campioni la terza. Insomma, è stato Totti.
Eupalla gli ha concesso una carriera lunghissima, privilegio di pochi: lo ha portato fino alla soglia dei quarant'anni, terreno infido di solito riservato (con estrema parsimonia) ai portieri. Gli ha regalato la forza di imbastire giocate straordinarie anche nei pochi minuti che nell'ultima stagione gli sono stati concessi. Da un allenatore che con intelligenza, e con più amore di quanto i tifosi possano credere, lo ha preservato per evitargli quei maledetti 90 minuti che il fisico non avrebbe potuto più reggere ai ritmi indiavolati di oggi.
Per questo le lacrime che mi spunteranno dagli occhi vedendolo dare l'addio al calcio saranno nulla, un piccolo rigagnolo rispetto al fiume che eromperà prepotente e inarrestabile se dovesse continuare, sfidando la logica e sporcando l'immagine leggendaria che lo accompagna sui campo di tutto il mondo.
Per favore, Francesco, lasciamo perdere l'India, gli Stati Uniti e qualsiasi altra destinazione. Totti è la Roma, è stato la Roma, sarà la Roma per intere generazioni da qui ai prossimi cent'anni. Il destino dei grandi dello sport è quello di rispettare la propria grandezza: non tutti trovano la forza di farlo.
Muhammad Alì, il più grande, non sarebbe mai stato messo in discussione se avesse evitato di combattere gli ultimi, maledetti e inutili incontri. Quelli persi in malo modo, che oggi fanno dire a chi non l’ha visto nel massimo fulgore: «Il più grande? Si, ma…». Lo stesso vale per Tyson, preso a sculacciate da pugili che, solo qualche anno prima, avrebbero avuto paura a salire sullo stesso ring. Nel ciclismo lo stesso destino è toccato a Fausto Coppi ed Eddy Merckx, che hanno prolungato la carriera oltre la propria leggenda: chi li ricorda arrancare con fatica sulle salite che avevano dominato non riesce a cancellare dalla memoria quelle immagini di una tristezza infinita. Meglio fare come Gimondi: un Giro vinto da vecchio, un Giro fatto vincere a un proprio compagno (Johan De Muynck) aiutandolo in modo decisivo e poi addio, tanti saluti a tutti e fine delle pedalate. Da campione. Rispettato da tutti e senza sorrisi di circostanza.
Nel calcio la tentazione è forte: ti offrono valanghe di soldi per giocare in campionati improbabili, per portare a spasso senza ritegno il peso di un mito che ha ormai vissuto il suo punto più alto. E in molti ci cascano, credendo di poter sconfiggere l'unico avversario davvero imbattibile: il tempo.
Se così non fosse Rivera sarebbe ancora in mezzo al campo a comandare i rossoneri, Suarez e Mazzola regalerebbero giocate e gol ai colori nerazzurri, Zoff e Boniperti non li avrebbe mai tolti dal campo nessuno. E poi Riva, Maradona, Pelè, Baggio, Platini, Van Basten: una lunga serie di indimenticabili campioni che sono rimasti nel cuore di tutti gli appassionati.
Purtroppo non è così, perché il tempo avanza inesorabile: un altro grande del nostro calcio, Andrea Pirlo, ha voluto andare oltre il limite della ragione. Ed è stato brutto vederlo, con la maglia bianconera e con quella azzurra, attaccato da ragazzini fisicamente prepotenti, di cui tra qualche anno nessuno ricorderà il nome, pronti a togliergli spietatamente quel pallone che un paio di anni prima avrebbe fatto volare con precisione millimetrica dove solo lui riusciva a intuire.
L'ultima con la Roma, l'ultima con il calcio: un abbraccio ai compagni, un saluto a braccia larghe in mezzo al campo, una lacrima e poi via, insieme a quella leggenda che nessuno potrà più sporcare. Totti, la Roma, l'azzurro della Nazionale. Un campione, il campione di tutti. Di cui nessuno, se andasse così, potrebbe mai dire: «Si, ma…».
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