La manovra avrà «risorse molto limitate» e dovrà puntarle tutte su «giovani e lavoro». In vista della legge di bilancio, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, fa un bilancio dell’azione di governo e indica le priorità di fine legislatura: «Un taglio permanente del cuneo fiscale per le assunzioni stabili dei giovani». Sul veto al Fiscal compact, Padoan frena: «Meglio puntare su una politica Ue per la crescita e gli investimenti».
Dopo tre anni e mezzo passati al ministero dell’Economia, e a qualche mese dalla fine di una legislatura «nata all’indomani della più grande recessione del dopoguerra», il bilancio di Pier Carlo Padoan è «nei numeri in miglioramento su crescita e finanza pubblica, nei dati qualitativi di un sistema bancario che sta svoltando e nel miglioramento innegabile dell’occupazione, a cui tengo in modo particolare». Tutti questi fattori, rivendica il ministro dell’Economia, permettono di «consegnare al prossimo governo una situazione molto migliore di quella che abbiamo trovato noi nel 2014»; ma si tratta di un bilancio ancora provvisorio, che vede all’orizzonte un «rischio politico aperto, mentre le altre componenti principali del rischio Italia, e cioè crescita, debito e banche, si stanno riducendo». Il compito di consolidare il quadro tocca alla manovra d’autunno, su cui il titolare dei conti italiani avverte: «Le risorse restano molto limitate, e vanno concentrate su occupazione e giovani». L’obiettivo, evidente, è di fermare sul nascere la prevedibile corsa alle promesse pre-elettorali che rischia di infiammarsi alla vigilia di uno dei voti politici più incerti della storia recente.
Ministro, il sostanziale via libera alla proposta italiana di una correzione dei conti da circa 5 miliardi invece dei 13,5 previsti dal Def apre spazi alla prossima manovra, come li userete?
Attenzione. Prima di di tutto è importante sottolineare che i vincoli di bilancio restano più stretti di quanto si pensi. La Commissione europea sta concordando su una riduzione del deficit da «almeno» lo 0,3% del Pil, nel senso che questo rimane il livello minimo di aggiustamento, non è rinegoziabile.
Abbiamo iniziato a lavorare a una legge di bilancio in continuità con le precedenti, che accanto al consolidamento si dovrà concentrare su poche priorità: i giovani, prima di tutto, con misure permanenti per l’occupazione, poi la lotta alla povertà e la spinta agli investimenti. Quelli privati stanno crescendo anche grazie alle misure messe in campo dal governo, e per la parte pubblica va migliorata la capacità di spesa delle amministrazioni.
Partiamo dall’occupazione. Da più parti - e anche da Confindustria - il taglio del cuneo fiscale e contributivo è considerato la misura prioritaria per rilanciare l’occupazione, quella giovanile in particolare. A patto, però, che sia significativo in termini di risorse.
Il lavoro tecnico è in pieno corso, e l’idea di base è semplice. Gli incentivi, sotto forma di riduzione del carico fiscale e contributivo, devono essere permanenti, anche per spingere le imprese a investire a lungo termine e a far entrare i giovani con la prospettiva di un lavoro stabile, che permetta di pensare a un mutuo o a metter su famiglia. Ma bisogna essere consapevoli che meccanismi come questi hanno costi importanti e crescenti nel tempo proprio per il loro carattere strutturale: per questa ragione hanno bisogno di coperture solide, e di una definizione precisa della platea.
Su quali criteri?
Li stiamo studiando, ma i principali sono due: l’età, naturalmente, e il fatto che le assunzioni “incentivate” siano legate a contratti permanenti, in modo da rafforzare l’impatto del Jobs Act.
Proprio sugli effetti del Jobs Act le discussioni sono continue. Il fatto che nuove misure pro-occupazione siano in cima alla lista delle priorità indica che i risultati sono stati inferiori alle vostre previsioni?
Al di là delle interpretazioni strumentali dei dati, il miglioramento nelle dinamiche è innegabile, e sta coinvolgendo ora anche donne e giovani. Certo, non sono dati né definitivi né sufficienti, ma danno un segnale importante perché configurano una ripresa che va al di là della componente ciclica e imbocca un sentiero più strutturale. Più in generale, le tante riforme fatte cominciano a dare risultati osservabili nei numeri e nelle statistiche, anche se questo fatica a farsi strada nella percezione diffusa delle persone; ma il miglioramento continuo fa ben sperare.
Numeri e statistiche, però, indicano anche che la componente investimenti continua a soffrire.
Non quelli privati, anche grazie alla spinta offerta dagli incentivi di questi anni; e in base a un metodo che abbiamo consolidato, nelle prossime mosse bisognerà tenere conto degli strumenti che hanno funzionato. Sugli investimenti pubblici deve migliorare la capacità delle Pa di utilizzare regole e fondi. Le risorse ci sono, la capacità di utilizzarle non è adeguata.
Il vincolo più delicato resta il debito. Fra le misure per abbatterlo, era stato avviato un programma di privatizzazioni che si è presto interrotto. Avete intenzione di riprenderlo?
Le privatizzazioni hanno sempre rappresentato una parte della strategia del governo, con l’obiettivo di abbattere il debito ma anche di migliorare l’efficienza manageriale nella gestione delle società interessate ad ampliare le fonti di finanziamento. Il processo si è interrotto nell’ultima legge di bilancio, e ora valuteremo se ci sono le condizioni per riprenderlo. Liberiamoci però del mito secondo cui ci sarebbero centinaia di miliardi di asset pubblici valorizzabili in breve tempo: si può lavorare a più soluzioni, anche innovative, ma gli importi sono sempre inferiori a quanto si dice.
Fra queste ipotesi «innovative» c’è il riordino delle partecipazioni sotto Cassa depositi e prestiti?
È tra le possibilità che abbiamo studiato.
Resta il fatto che il debito rimane il problema chiave dei conti italiani, soprattutto in vista dell’uscita dal Quantitative easing. Quali sono le prospettive?
I rischi di un aumento dei tassi ci sono, ma impatteranno su un’economia italiana molto più solida del passato. Questo elemento, insieme a una gestione tecnica molto oculata del debito, prospetta in base alle nostre simulazioni un effetto pienamente sostenibile della fine del Qe. Ciò non toglie che alla manovra serva un sistema di coperture solide e strutturali, perché le misure una tantum aiutano ma non sono risolutive.
Sul piano fiscale si guarda all’estensione ai rapporti commerciali fra privati dell’obbligo di fatturazione elettronica oggi in vigore quando si lavora con la Pa. A che punto è la discussione con la commissione Ue, che deve autorizzare questa pratica?
È uno dei temi su cui stiamo lavorando, perché la riteniamo una misura importante non solo per il gettito aggiuntivo che produrrebbe, ma anche per la trasparenza ed efficienza che aggiungerebbe al sistema tributario. Il pieno effetto si dovrebbe avere a partire dal 2019, ma non escludiamo una partenza nel prossimo anno.
E il taglio delle «spese fiscali», cioè la rivisitazione di deduzioni e detrazioni inefficienti? È un dossier sempre sul tavolo ma sempre rinviato per la sua delicatezza politica.
Anche questo è un fattore di trasparenza. Le spese fiscali si accumulano nel tempo, per rispondere a esigenze specifiche, e finiscono per aumentare l’opacità del sistema tributario. Essendo una legge di bilancio caratterizzata da grande ristrettezza di risorse, non ci sono preclusioni a intervenire anche su questo versante.
Sempre in fatto di trasparenza e linearità del sistema fiscale, questo giornale ha lanciato il dibattito sulla flat tax al 25% proposta dall’Istituto Bruno Leoni. Che cosa ne pensa?
La flat tax è l’esatto opposto delle spese fiscali, perché rappresenta il sistema più semplice possibile, e quindi trasparente.
Sono affascinato dalla proposta sul piano intellettuale, ma avanzo un’obiezione banale: la vera domanda è a quale livello fissare l’aliquota, e mi pare che il 25% sia basato su una stima ottimistica che amplifica i benefici ma minimizza i costi. Sono disponibile a ragionarci, ma non illudiamoci che sia un passaggio semplice.
Nei rapporti con l’Europa, si è riacceso il dibattito sull’inserimento del fiscal compact nei Trattati, e il segretario del Pd Matteo Renzi ritiene che l’Italia debba far valere il proprio potere di veto e addirittura tornare ai parametri di Maastricht. Lei come la vede?
Osservo che il fiscal compact sta diventando un elemento di dibattito politico molto forte, ma mi piacerebbe che si usasse questo “capitale politico” in modo più propositivo sul futuro dell’Europa. Bisogna guardare avanti, non indietro. Il fiscal compact, che l’Italia ha in parte incorporato in Costituzione con il pareggio di bilancio, ha senza dubbio aspetti tecnici da rivedere profondamente, e in parte lo stiamo già facendo per esempio con la rivisitazione dell’output gap (il calcolo della distanza fra crescita potenziale ed effettiva, ndr). In quest’ottica, è più utile discutere su come facciamo a dotare l’Europa di strumenti per la crescita e per il lavoro; troviamo un accordo sull’assicurazione contro la disoccupazione ciclica, ragioniamo di come associare alla politica monetaria unica una politica di bilancio unica, e discutiamo di un ministro delle finanze europeo che possa gestire in modo unitario questa strategia nuova.
Sta dicendo che anche all’interno dell’agenda Ue bisogna rilanciare gli investimenti?
Una politica degli investimenti esiste già, con il piano Juncker che è frutto anche dell’insistenza sul tema degli investimenti dalla presidenza di turno italiana nel 2014. L’Italia è uno dei maggiori beneficiari dei fondi. In Ecofin abbiamo discusso a lungo su misure, modellate sul piano Juncker, da rivolgere ai Paesi da cui partono i flussi migratori, e si può immaginare una doppia estensione dei criteri originari: in termini geografici, appunto, e sul piano degli obiettivi finanziabili. Per essere più efficaci, queste misure andrebbero inserite in una strategia più ampia, che si può definire una Innovation Union con l’obiettivo di incidere sulla produttività, e quindi metta le infrastrutture immateriali sullo stesso piano di quelle materiali, perché gli investimenti in ricerca e sviluppo ha quantomeno la stessa importanza di quelli in un’autostrada, e in questa chiave sarebbe utile pensare a una nuova Golden Rule adeguata ai tempi. Il lancio di una nuova strategia di crescita a livello europeo dovrebbe essere la prima priorità per l’Europa uscita dalla recessione. E avrebbe, aggiungo, un sostegno politico ampio.
Su questi temi, però, in Europa ci sono parecchie resistenze, a partire dalla Germania, come si superano?
Come sempre, è una questione di fiducia. La Germania, che pure ha un bilancio in equilibrio e quindi può agire da sola, è uno dei paesi che dovrebbero investire di più. In Europa dobbiamo immaginare una prospettiva a medio termine con più spazio per gli investimenti in un contesto nel quale il debito deve continuare a scendere, grazie appunto anche alla crescita. Per ottenere questo risultato occorre ragionare sui parametri di bilancio, e per esempio una valutazione su un orizzonte triennale anziché annuale cambierebbe molte cose.
Intanto l’empasse dell’operazione Fincantieri-Stx conferma il peso delle questioni nazionali anche fra grandi stati europei. Dopo il vertice di martedì è più ottimista o pessimista?
Non faccio previsioni, ma ribadisco che sulla maggioranza azionaria non siamo disposti a passi indietro.
Siamo interessati a un progetto per la creazione di una realtà di eccelenza nella cantieristica sia sul piano civile sia su quello militare, e il contributo italiano sarebbe molto ampio.
Sull’asse Italia-Francia corre anche la partita di Telecom, in cui si torna a discutere sull’ipotesi di scorporo della rete e di una società delle reti sotto Cdp. Come la giudica?
A prescindere dai proprietari, in termini di principio, la separazione fra infrastrutture e operatori è una soluzione che può dare efficienza, e la si può realizzare in vari modi. Il discorso va legato all’obiettivo strategico di dotare l’Italia di un capitale Ict adeguato alle sfide di un Paese avanzato.
A proposito di Telecom il Governo, su proposta del ministro Calenda, ha avviato la procedura sulla golden power. La vostra linea si fa ancora più dura nel confronto con la Francia?
Ho detto in passato che il problema non è costituito dagli investimenti esteri in Italia, che possono aiutare la crescita e l’occupazione, ma dalla scarsità degli investimenti italiani nel mondo. Vorrei vedere più Italia nel mondo, e quando le nostre aziende vanno a fare investimenti all’estero ci aspettiamo parità di trattamento.
I negoziati con l’Europa non sono stati semplici nemmeno sul versante del credito. Dopo le operazioni su Mps e le due venete, vede altri focolai di crisi?
Il sistema è a una svolta anzitutto nella percezione del rischio a livello internazionale. Mesi fa il dibattito accademico e i report delle banche internazionali erano intonati a un mood esageratamente negativo, mentre ora si riconosce che sono state fatte operazioni importanti, e anche la velocità di cessione degli Npl sta aumentando con meccanismi di mercato; aiutati, questi, da strumenti come le garanzie sulla cessione dei crediti in sofferenza, che si sono rivelati più efficaci del previsto. Con una crescita più solida, sarà più facile anche riportare il tasso di sofferenze ai livelli fisiologici.
La commissione ha aperto sulla possibilità di costituire Bad Bank, ma solo a livello nazionale. È un’opportunità da cogliere?
Bisogna metterci d’accordo sulle loro caratteristiche, a partire dal fatto che secondo noi l’adesione deve essere volontaria per non distorcere gli incentivi. In Italia, nel frattempo, pur in un contesto regolatorio difficilissimo abbiamo introdotto strumenti come Atlante prima, e il fondo da 20 miliardi poi.
Da ultimo abbiamo rivitalizzato la Sga, che per una quota delle sofferenze delle due banche venete gestirà il recupero dei crediti. Insomma, nell’impossibilità di realizzare una Bad Bank abbiamo messo in campo un insieme di strumenti che ci hanno consentito di affrontare i problemi sul tappero.
© Riproduzione riservata