Nel 2009, in uno studio sulla «lunghezza della transizione scuola-lavoro», Eurostat aveva provato a quantificare il periodo medio di attesa tra fine degli studi e primo impiego. I fanalini di coda? Grecia, Cipro e Italia: tutti e tre con un tempo medio di assunzione sopra i 10 mesi, contro la media Ue di 6,5 mesi. Nel 2016 l'agenzia ha pubblicato una classifica simile, stilata però sul tasso di occupazione di diplomati e laureati. E in fondo alla classifica compaiono ancora Grecia, Cipro e soprattutto Italia: tasso di occupazione dei laureati più qualificati del 61,3%, contro una media europea dell'82,8%.
Uno dei paradossi che incombe sul mercato del lavoro italiano è quello dei cosiddetti profili over-skilled: la difficoltà di inserire risorse con competenze troppo specialistiche o teoriche rispetto alle esigenze delle imprese. Con il rischio di creare una “corsa al ribasso” dove le qualifiche diventano più un handicap che un valore aggiunto in fase di assunzione. Un freno che si aggiunge a quelli già noti, dalla zavorra del costo del lavoro (con cuneo fiscale al 49%) alle rigidità burocratiche che rendono sempre più ostico il ricambio generazionale. A svantaggio, appunto, dei giovani.
A un anno da laurea lavora meno di 1 laureato su 2
Ma oggi quanto si impiega ad assumere una risorsa under 30? Non è facile stabilire con precisione il tempo di attesa, anche se qualche spunto arriva dalla condizione di una categoria che dovrebbe essere privilegiata: i laureati. Secondo i dati di Almalaurea, consorzio che riunisce oltre 70 atenei, a un anno dalla tesi risulta “occupato” solo il 42,9% dei laureati con una retribuzione di 1.041 euro. In altre parole, meno di uno su due ha iniziato a lavorare a tempo pieno ad almeno 12 mesi da un titolo che dovrebbe rappresentare un trampolino di lancio per la propria carriera. «In un certo senso è naturale che ci sia una fase di transizione dopo la fine degli studi. È quando si allunga troppo che diventa patologica» spiega Emilio Reyneri, sociologo del lavoro e professore emerito all'Università Milano-Bicocca. Da cosa dipende la “malattia” di mesi o anni in attesa di una stabilizzazione, anche per i profili con più carte da giocare in curriculum? Reyneri intravvede una concomitanza di fattori. «In parte pesa la questione dimensionale delle aziende – spiega - le grandi campagne di assunzione arrivano dalla società più grandi, e in Italia il tessuto è rappresentato soprattutto da Pmi che hanno meno possibilità di fare inserimenti».
I ritardi italiani nell’innovazione
Su un altro fronte, resistono i problemi più strutturali: la scarsa spinta all'innovazione che taglia fuori professionalità più innovative e ad alto tasso di qualifiche, dall'ingegneria informatica alle scienze dei materiali. E qui entra in gioco il ritardo del paese nelle spese su settori sensibili come l'R&D, la ricerca e sviluppo. Nel 2015 l'Italia ha dedicato al settore l'1,3% del Pil contro il quasi 3% della Germania e della Danimarca. In questa prospettiva, acquisire competenze troppo avanzate rischia di diventare un handicap. «Nel resto d'Europa, se sei più qualificato trovi lavoro prima – spiega – In Italia, unico caso insieme alla Grecia, rischi di avere più difficoltà perché si spinge più su professioni a basso tasso di qualifiche». La tesi trova conferme nei dati. Come visto sopra, l'Italia è il penultimo paese su scala europea per tasso di assunzione di profili in possesso di un'istruzione “terziaria” (laurea e successivi diplomi): poco più del 60%, meglio solo della Grecia (55%), 25 punti sotto la Germania (86,4%) e a 32,3 punti di distanza dalla Norvegia (93,6%).
Perché servono più bonus (e meno vincoli)
Alla base, però, c’è anche un problema tecnico: il costo del lavoro. Secondo Reyneri, una delle vie per favorire l’ingresso di talenti passa per la riduzione di spese e lungaggini burocratiche quando si tratta di inserire in pianta stabile risorse ad alto potenziale. «Se si vuole maggiore stabilità bisogna ridurre i costi per i contratti a tempo indeterminato - dice - Con gli sgravi degli ultimi anni i “tempi di transizione” che citavamo prima si sono accorciati. E questo dovrebbe essere un segnale». Qualche numero? Come ha scritto ieri il Sole 24 Ore, con lo sgravio pieno fino a 8.060 euro adottato nel 2015 si sono totalizzate 386mila assunzioni di giovani sotto ai 29 anni. L’anno successivo, con il tetto a 3.250 euro, non si è arrivati neppure alla metà (188mila).
L’altro volto del mismatch: quando è l’azienda che non trova risorse
Un ultimo handicap è quello della “altra faccia” del mismatch: anche tra i profili più qualificati, c'è una carenza di figure focalizzate sui settori con più offerta da parte delle aziende. Un report di Gidp, gruppo intersettoriale direttori del personale, ha evidenziato che il 40,5% delle imprese ha trovato difficoltà nel reclutare ingegneri, in particolare gestionali (37,5%). «Insomma, non bastano le qualifiche: dipenda anche dal tipo di qualifiche – spiega Paolo Citterio, presidente Gidp – Se ti laurei in certi ambiti, puoi ricevere offerte anche prima di laurearti».
Anche a livello retributivo, l'asticella si spinge ben oltre la media dei coetanei laureati in altre discipline. A tre anni dal titolo un ingegnere gestionale guadagna quasi 1.600 euro netti, contro lo standard complessivo di 1.278 euro. Ma è anche vero che, nel resto d'Europa, potrebbe ambire a ben altri valori: «In Francia o nel Regno Unito ci sono molte più possibilità di assunzione, quindi lo stipendio si alza – spiega Citterio – E allora il problema non è più il mismatch, ma la fuga».
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