Con la sua garbata lettera pubblicata sul nostro giornale di oggi in risposta al mio articolo del giorno prima sull'ammissibilità delle mozioni concernenti il Governatore della Banca d'Italia, la presidente Laura Boldrini m’invita a nozze. Si dà il caso che io sia allievo di Silvano Tosi. E il costituzionalista fiorentino alla fine degli anni Sessanta pubblicò una monografia sulla direttiva parlamentare che assieme ad altri titoli gli valse la prima cattedra universitaria di diritto parlamentare. Una cattedra auspicata agl’inizi del Novecento da Vincenzo Miceli. E la vinse, Tosi, in una terna che comprendeva studiosi del calibro di Giuliano Amato e Valerio Onida. Con questo suo saggio il Nostro anticipò i tempi. Di lì a poco, tra il 1976 e il 1979, la cosiddetta solidarietà nazionale fece il bello e il cattivo tempo. Per forza. Il Pci prima con l’astensione e poi con la fiducia fece parte della maggioranza però mai del governo. E, proprio grazie alle mozioni e alle risoluzioni, il partito di Berlinguer mirava a dimostrare a un suo popolo inquieto che il Pci contava eccome. Tanto da pretendere e ottenere la testa di un incolpevole Giovanni Leone, costretto a discendere precipitosamente le scale del Quirinale.
D'altra parte uno studioso al quale la torre d'avorio è stata sempre stretta come Leopoldo Elia sottolineava il fatto che i governi ora sono comitati direttivi della maggioranza parlamentare ora ne sono i comitati esecutivi. Qualcosa del genere sosteneva anche Cavour. Nel dibattito parlamentare sul disegno di legge che conferiva al re Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di re d’Italia, il presidente del Consiglio constatò che i governi o vanno a rimorchio dell’opinione pubblica, e perciò anche della maggioranza parlamentare, o ne sono i rimorchiatori. E non si negò il piacere di aggiungere con una punta di civetteria e con legittimo orgoglio che lui si attenne sempre al secondo corno del dilemma.
Ciò premesso, veniamo al punto. Se per pura ipotesi fosse stata approvata anche una sola delle mozioni che impegnavano il governo a rimuovere il Governatore della Banca d’Italia, Paolo Gentiloni – visto e considerato che un atto di indirizzo non è un flatus vocis – non avrebbe avuto altra scelta che quella di sottomettersi o dimettersi. E volutamente uso una frase celebre. Cioè quella adoperata da Léon Gambetta nel famoso discorso pronunciato a Lilla il 15 agosto 1887 contro il presidente della Repubblica Mac-Mahon, colpevole di aver sciolto l’Assemblea nazionale e costretto alle dimissioni di lì a poco.
Torniamo al presidente del Consiglio in carica. Gentiloni avrebbe potuto disattendere la mozione solo con le dimissioni sue e dell’intero governo. O, al contrario, avrebbe potuto fare di tutto per darne esecuzione. Nel qual caso avrebbe dovuto mettere a parte il capo dello Stato di questo suo orientamento. Ma Sergio Mattarella a questo punto avrebbe potuto obiettare di essere contrario alla revoca del Governatore e di essere invece favorevole alla sua conferma. Com’è nei suoi poteri, del resto. Dal momento che gli atti di nomina e di revoca del Governatore sono – come ho tenuto a sottolineare nel mio articolo – atti duali o duumvirali. Dove si sposano le due volontà del Quirinale da una parte e di Palazzo Chigi dall’altra.
Che cosa sarebbe successo? Un patatrac. Difatti se Mattarella avesse tenuto il punto e rivendicato per intero le sue prerogative, non avrebbe avuto altra scelta che quella di sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale. Come fece il presidente Ciampi nei confronti del guardasigilli Castelli a proposito del potere di grazia. Se l’immagina, gentile presidente Boldrini, un simile conflitto politico e istituzionale al tempo stesso tra Quirinale e Palazzo Chigi nell’imminenza di un’impegnativa campagna elettorale? Con ogni probabilità le elezioni politiche non assegneranno a nessuna lista la palma della vittoria e spalancheranno le porte – a meno di un miracolo, e lo stellone della Repubblica ne ha già fatti tanti – a un’ingovernabilità senza molte vie d'uscita. Si aggiungerebbe confusione a confusione. Lei cita i precedenti, Presidente. So bene quanto i precedenti contino nel diritto parlamentare. Ma non mi rassegno all’idea, come non si rassegnava Stefano Rodotà, che per uno sbaglio di una volta tutti i successivi presidenti di assemblea parlamentare siano costretti a perseverare nell’errore. Diceva bene quella malalingua di Leo Longanesi: sbagliando non s’impara; no, s’impera.
Un’ultima notazione. Le lettere inviate dalla presidente Boldrini al Sole 24 Ore e al Corriere della Sera in risposta rispettivamente al sottoscritto e al collega Sabino Cassese sono copie conformi. Ma io ne ho fatto una questione di stretta legittimità e deliberatamente non mi sono pronunciato sull’opportunità delle mozioni. Perciò sia l’apertura sia la chiusura della sua lettera, presidente Boldrini, non mi riguardano. Tuttavia, già che sono stato chiamato in ballo, per mia pochezza non riesco a comprendere il finalino. La presidente Boldrini – dicendo di parlare non al giurista, come se avessimo un altro vestito oltre a quello – afferma che la maggioranza non era obbligata ad aggiungere una sua mozione a quelle dell’opposizione. Verissimo. Non glie l’ha prescritto il medico. Ma ne aveva di sicuro facoltà. Dopotutto, ai gruppi della maggioranza non può essere riservata la parte di convitati di pietra. Un’opzione di carattere squisitamente politico sulla quale ogni dubbio è legittimo. Ma che non rientra nelle mie competenze.
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