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Cresce l’occupazione, ma è a termine. Male edilizia e …

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il rapporto

Cresce l’occupazione, ma è a termine. Male edilizia e giovani, crollano gli autonomi

Crescono i contratti a termine (ma gli impieghi sono essenzialmente di breve durata, sotto i 4 mesi); per i ragazzi la situazione resta critica, dopo che nel periodo 2008-2016 il tasso di occupazione dei più giovani ha perso 10,4 punti percentuali. Per gli autonomi la crisi non sembra passata: -430mila posti, sempre nel periodo 2008-2016; e anche la Pa ha lasciato sul campo 230mila unità di personale essenzialmente per effetto del blocco del turn-over.

Lo studio
Il rapporto integrato sul mercato del lavoro 2017, presentato a palazzo Chigi, da ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail, Anpal, conferma una situazione con luci e ombre, all’interno di un quadro economico in miglioramento. La ripresa accelera e il mercato del lavoro recupera, in buona parte, i livelli occupazionali della situazione pre-crisi: nel primo semestre del 2017 il numero di occupati si avvicina ai livelli del 2008, mentre in termini di ore lavorate il gap è ancora rilevante, essendo legato più strettamente alla dinamica del Pil.

Nel 2016 produttività in calo
La ripresa economica è caratterizzata da una elevata intensità occupazionale: l’andamento della produttività del lavoro (valore aggiunto per ora lavorata) mostra infatti un incremento medio annuo dell’1% nella fase recessiva (2009-2014), una sostanziale stabilità nel 2015 e una flessione dell’1% nel 2016. D’altra parte, tra il primo semestre del 2013 e il primo 2017, a fronte di un aumento del Pil del 3,4% le ore lavorate sono cresciute del 3,6% e gli occupati del 2,9 per cento.

In ripresa l’industria, male le costruzioni
Gli andamenti congiunturali recenti segnalano come, dopo agricoltura e servizi, anche l’industria in senso stretto registri una ripresa occupazionale che si intensifica nei primi sei mesi del 2017; l’occupazione nelle costruzioni continua invece a ridursi in modo ininterrotto dal 2009.

Gli occupati stabili a quota 14 milioni 966mila
L’aumento del lavoro alle dipendenze ha avuto effetti diversi per carattere dell’occupazione. Dal 2014 cresce l’occupazione a termine, con un rallentamento nei due anni successivi, mentre dal 2015, grazie anche ai provvedimenti che garantiscono decontribuzioni ai datori di lavoro, cresce anche l'occupazione a tempo indeterminato. Dal primo trimestre 2017 si intensifica nuovamente la crescita dell’occupazione dipendente a termine toccando il massimo storico (2,7 milioni di unità) nel secondo trimestre 2017 (+4,8%). Il rallentamento della crescita dei dipendenti a tempo indeterminato, che pure raggiungono il valore più elevato (14 milioni 966 mila unità), potrebbe essere associato all'attesa di prossimi benefici sulle assunzioni a tempo indeterminato per le imprese, previsti dalla legge di bilancio 2018. Il tasso di occupazione ha raggiunto il 57,8% nel secondo trimestre del 2017 recuperando oltre due punti percentuali rispetto al valore minimo (terzo trimestre 2013, 55,4%); tuttavia è ancora distante di un punto da quello massimo registrato nel secondo trimestre del 2008 (58,8%) e resta il secondo tasso più basso tra i paesi Ue28. La crisi ha ridimensionato il gap di genere, colpendo soprattutto i settori di attività con maggiore presenza maschile. Tra il 2008 e il 2013 il tasso di occupazione per gli uomini è sceso di 5,5 punti a fronte di 0,7 punti per le donne e negli ultimi tre anni l'aumento è stato di poco superiore per la componente maschile (+1,8 contro +1,6). Ciò ha fatto sì che le donne nel 2016 abbiano superato il livello occupazionale del 2008, già raggiunto nel 2015, mentre gli uomini sono ancora distanti di oltre tre punti.

Tasso di disoccupazione all’11,2%, quart'ultimi in Ue
Il tasso di disoccupazione, dopo la diminuzione nel 2014 e la sostanziale stabilità negli ultimi due anni, è diminuito nel primo e secondo trimestre 2017 arrivando all'11,2%, rimanendo il quarto tasso più alto tra i paesi Ue28 (dopo Grecia, Spagna e Cipro) e continuando a persistere su livelli elevati a causa soprattutto della continua tendenza alla riduzione del tasso di inattività, testimonianza di una significativa riattivazione dell'offerta di lavoro dovuta al ciclo favorevole. Un aspetto interessante è dato dalla relazione tra posti vacanti e disoccupazione, che mostra un andamento coerente con quello che ci si aspetta dopo una contrazione economica: un aumento del tasso di posti vacanti - che raggiunge lo stesso livello del primo trimestre 2008 e si avvicina al massimo storico - in presenza del protrarsi dell'aumento del tasso disoccupazione, che successivamente comincia a ridursi man mano che le imprese iniziano ad assumere.

In aumento età media della forza lavoro
Nondimeno, la ripresa della domanda di lavoro ha interagito con un’offerta di lavoro su cui influiscono numerosi fattori, tra i quali spiccano i cambiamenti demografici e nei modelli di partecipazione. Da un lato, il calo della natalità contestuale all'allungamento della sopravvivenza ha prodotto un invecchiamento della popolazione. Dall'altro, la crescente scolarizzazione, l'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro nelle fasce di età più adulte e le riforme pensionistiche hanno procrastinato l'uscita dall'occupazione portando a un innalzamento dell'età media della forza lavoro più intenso di quello nella popolazione di 15-69 anni (+5,2 anni, rispetto a +3,2 anni della popolazione). Dall'inizio degli anni '90 ad oggi, l'età media delle forze lavoro è cresciuta di 2 anni in più rispetto all'incremento dell'età media della popolazione della stessa età: il calo della quota dei 15-34enni sul totale delle forze di lavoro 15-69 anni è stato più intenso rispetto a quello osservato sulla popolazione (-18,6, a fronte di -11,6 punti), mentre è stato più forte l'aumento di quello delle fasce 35-54 anni e 55-69 anni (+10,9 e +7,6 punti, rispetto a +7,9 e +3,7).

Male i giovani
Uno dei tratti caratteristici della lunga crisi, solo parzialmente modificato dalla fase di ripresa, è la divergenza nell'andamento dei tassi di occupazione per classe di età, con una forte penalizzazione dei giovani: nel periodo 2008-2016 il tasso dei più giovani ha perso 10,4 punti percentuali, mentre quello degli over55 è cresciuto di 16 punti. Le perdite per i 15-34enni sono state maggiori nel Centro-nord e per la componente maschile. Di contro, all'aumento rilevato per i 55-64enni hanno contribuito entrambi i generi e soprattutto le regioni settentrionali. Se per i 15-24enni il prolungamento della permanenza nei percorsi formativi ha in una certa misura arginato l'impatto della crisi, per i 25-34enni la congiuntura negativa ha impattato sulla possibilità di inserimento e di permanenza nel mercato del lavoro. Solo negli ultimi due anni la condizione dei giovani mostra segnali di miglioramento: dopo otto anni di calo, il tasso di occupazione torna a crescere nel 2015 e soprattutto nel 2016 (+0,1 e +0,7 punti). Nel 2016 poco più della metà dei 12,6 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni ha almeno un'esperienza lavorativa, conclusa o ancora in corso; il 74,2% dei 3,2 milioni di 25-29enni e l'87,4% dei 3,5 milioni di 30-34enni è già entrato nel mondo del lavoro.

Le professioni “vincenti”
La fase di ripresa economica è associata ad una intensa dinamica dei flussi delle attivazioni e delle cessazioni dei rapporti di lavoro alle dipendenze: dal 2013 al 2016 sono stati attivati 40 milioni 68 mila rapporti di lavoro alle dipendenze mentre ne sono cessati 39 milioni 152 mila, con un saldo di 916 mila posizioni in più nei quattro anni. La crescita si concentra in 125 professioni (oltre 1 milione 300 mila posizioni in più) a fronte della diminuzione o della stabilità per le altre 385 professioni (calo di 381 mila posizioni). Le professioni “vincenti” comprendono competenze e settori di attività diversi: da addetti agli affari generali, a professioni nel comparto dell'istruzione (professori di scuola da pre-primaria a secondaria superiore) a occupazioni nell'Ict (analisti e progettisti di software, amministratori di sistemi, tecnici programmatori, esperti di applicazioni, ecc.) a professioni nel commercio e ristorazione (baristi, camerieri, commessi, tecnici alle vendite), fino agli addetti all'assistenza personale (badanti) come pure camionisti, addetti alla pulizia di uffici e braccianti agricoli.

Più di un terzo delle imprese ha aumentato gli addetti
Gli effetti della ripresa dell'ultimo anno appaiono più forti per i soggetti che avevano subito di più la crisi (gli uomini e i giovani) mentre gli stranieri rimangono ancora penalizzati in termini di stabilità e di qualità del lavoro. Le dinamiche del mercato del lavoro dipendono in misura determinante dalle caratteristiche e dalle strategie delle imprese. Nel complesso, tra il 2015 e il 2017 oltre un terzo (il 36,1%) delle imprese con dipendenti sempre attive dal 2015 al 2017 ha registrato un aumento netto delle posizioni lavorative totali (con picchi del 61,0% e del 56,4% rispettivamente tra le unità di medie e grandi dimensioni) mentre il 25,7% le ha viste ridursi. Il contributo delle unità di minore dimensione alla creazione netta di posti di lavoro, nel corso del biennio, è aumentato dal 34,0% nel 2015-2016 al 43,6% nel 2016-2017. Il consolidamento del recupero di posti di lavoro è stato diffuso nel sistema, interessando quasi tutti i settori e tutte le classi dimensionali d'impresa: nella manifattura, 14 su 23 settori hanno registrato un aumento delle posizioni lavorative in ciascuno dei due anni del periodo (2015-2016 e 2016-2017); nei servizi di mercato la crescita delle posizioni lavorative è stata più diffusa, oltre che intensa, interessando 26 settori su 29. L'analisi dei profili delle imprese che hanno creato più posti di lavoro nel 2016-2017 consente di individuare le caratteristiche dei top performers: il 10% di unità con tassi di crescita più elevati (un insieme di circa 75 mila imprese le cui posizioni lavorative dipendenti sono cresciute di almeno il 7%) è rappresentato in prevalenza da aziende di piccole dimensioni, attive da almeno sei anni, operanti soprattutto nei servizi della ristorazione e del commercio al dettaglio. Si tratta di imprese con una produttività del lavoro superiore del 5% rispetto alla media complessiva, alta competitività di costo del lavoro per unità di prodotto (inferiore del 15% alla media) e con retribuzioni generalmente più elevate rispetto alle medie settoriali. La forza lavoro di questo segmento produttivo, inoltre, è più giovane della media complessiva (l'81,5% del personale dipendente ha meno di quaranta anni, a fronte del 47% nel complesso delle imprese) e più istruita (vengono impiegati 4 lavoratori laureati ogni 10 non laureati, laddove in media l'intero sistema produttivo ne impiega 2,5). In questo quadro, la decontribuzione sembra aver rappresentato prevalentemente un fattore di potenziamento e sostegno alle assunzioni.

Autonomi in calo
Come già anticipato, in Italia il periodo di recessione ha colpito in maniera più grave la componente indipendente dell'occupazione, con tendenze negative che persistono anche nella fase di ripresa. Tra il 2008 e il 2016 mentre l'occupazione dipendente cresce dello 0,6% quella indipendente diminuisce nel complesso del 7,3% (corrispondente a 430 mila occupati in meno) con un calo concentrato nella fase recessiva (-369 mila). Se da un lato la diminuzione del peso dell'occupazione indipendente ha significato per l'Italia un avvicinamento alle caratteristiche prevalenti nei mercati del lavoro europei, dall'altro essa è stata accompagnata da un processo di ricomposizione che ha coinvolto in misura particolare alcune specifiche categorie di occupati indipendenti. Infatti, il calo è concentrato soprattutto nel segmento senza dipendenti (in particolare tra i collaboratori), all'interno del quale crescono tuttavia i liberi professionisti.

Infortuni in ripresa nel 2016
Sono state 561 mila le denunce di infortunio registrate nel 2016 (al netto di quelli occorsi a studenti, casalinghe e marittimi). Il dato registra un incremento dell'1,0% rispetto al 2015, mentre il relazione al 2010 si registra una flessione del 27,5% a conferma di un trend in diminuzione in atto da quasi un ventennio. L'interruzione di una serie che vedeva in calo il dato infortunistico ormai da molti anni, trova parziale spiegazione nella ripresa economica e occupazionale che allarga la platea esposta al rischio in termini quantitativi o di intensità (per chi, ad esempio, già lavorando ha visto aumentare i ritmi di lavoro). Nel 2016 restano caratterizzati da livelli di rischio infortunistico (rapporto infortuni su occupati) più elevati l'agricoltura (oltre 40 denunce in complesso ogni 1.000 lavoratori) e le costruzioni (oltre 30 denunce ogni 1.000 lavoratori), ben più alti del valore medio (20). Il rischio di morire durante il lavoro è quadruplo in agricoltura e triplo nelle costruzioni, rispetto a quello medio.

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