La rivolta dei notabili del Pd ha in un certo senso costretto Renzi alla resa immediata, trasformando le dimissioni congelate di lunedì sera in dimissioni operative. Non sarà dunque il segretario uscente a gestire la delicata fase delle consultazioni al Quirinale, bensì in vice-segretario Maurizio Martina. Tuttavia la mossa preventiva di Renzi di mettere subito dei paletti («no ad accordi con gli estremisti, ossia M5S e Lega») ha avuto l’effetto - voluto - di far uscire tutti allo scoperto e di bloccare con una certa nettezza l'ipotesi avanzata da alcuni (il governatori Michele Emiliano e Sergio Chiamparino) di un accordo programmatico di governo con i Pentastellati.
Tanto che anche i “frondisti” ossia Luigi Zanda e Dario Franceschini hanno escluso l’ipotesi. Lo stesso ha fatto il leader della minoranza Andrea Orlando («il 90% del partito è contrario ad un'alleanza con il M5S»). E una voce autorevole in questa direzione si è levata anche dal ministro Carlo Calenda. La chiarezza sul passo di lato di Renzi serve poi a svelenire il clima interno in vista della prossima elezione dei capigruppo dem: per il Senato l’ipotesi è un uomo vicino all’ex segretario (Dario Parrini o Andrea Marcucci), mentre alla Camera - oltre all’ipotesi della conferma di Ettore Rosato, pontiere in questa fase delicata, o a quella di un altro renziano di mediazione come Lorenzo Guerini - la sorpresa potrebbe avere il volto del ministro Graziano Delrio. Che in caso lascerebbe il governo.
L’esclusione della possibilità di un accordo politico con i Pentastellati non significa tuttavia l’arroccamento del Pd in una sorta di novello Aventino. Le sfumature in politica sono importanti. Una volta che non sarà più Renzi a gestire da segretario la prossima delicata fase, cade anche il muro che all’indomani del voto era stato frettolosamente eretto nei confronti del Quirinale. Il ragionamento che in molti fanno dentro il Pd, da Franceschini e Zanda fino agli stessi renziani, è che di fronte a una chiamata del presidente della Repubblica e di fronte alla prospettiva di un rapido quanto inconcludente ritorno alle urne il Pd non possa non rispondere.
E quella chiamata è in un certo senso già arrivata, dal momento che Sergio Mattarella - in occasione della festa della donna, parlando per la prima volta dopo le elezioni – ha invitato tutte le forze politiche alla «responsabilità» e a guardare prima all’«interesse del Paese». Dentro il Pd sta insomma prendendo piede un silenzioso, per ora, partito trasversale del Presidente. Che risponderebbe in caso di stallo prolungato e di conseguente necessità di un governo di unità nazionale o di scopo. Il che è una cosa diversa dall’accordo politico con i “populisti” o gli “anti-sistema”, ossia M5S o Lega, che tutti nel Pd vedono al momento come una mossa suicida. E l’atteggiamento più morbido del Pd nell’era post renziana potrebbe vedersi già al momento di eleggere il presidente della Camera (per l’elezione del presidente del Senato, che prevede il ballottaggio tra i primi due più votati, viene meno la necessità di un consenso largo).
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