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Il neomoderato Di Maio e la strategia con il Colle: parlare a tutti con lo…

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il M5S e l’avvio di legislatura

Il neomoderato Di Maio e la strategia con il Colle: parlare a tutti con lo sguardo a Mattarella

«Sono sicuro che il capo dello Stato gestirà nel migliore dei modi questa fase. Apprezziamo molto che il Quirinale non stia mettendo fretta alle forze politiche». La frase che Luigi Di Maio ha pronunciato oggi all’assemblea dei 227 deputati M5S neoeletti, al loro primo ingresso alla Camera, è soltanto l’ultimo di un nutrito elenco di messaggi concilianti rivolti al Colle. In fondo, la storia di quest’anno può essere letta tutta, a ritroso, come un faticoso e studiatissimo processo di accreditamento e di rassicurazione in tutte le direzioni che contano: le cancellerie europee, la Santa Sede, i mercati e, appunto, il Quirinale. Una sorta di lunga marcia con una meta ben precisa: Palazzo Chigi.

«Di Maio parla sempre anche a Mattarella», dice una fonte del Movimento bene informata. E con questa lente può essere letta in filigrana l’intera metamorfosi pentastellata, a partire da quell’aprile 2016 in cui Di Maio volò per la prima volta a Londra. Più facile per lui che per chiunque altro, dentro il M5S: perché era vicepresidente della Camera (il viaggio fu giustificato con la sua presidenza del poco conosciuto Comitato di vigilanza sull’attività di documentazione), ma anche perché era ritenuto già allora il più “presentabile”, lontanissimo dai grillini dei vaffa, delle scie chimiche e del no-vax. Il nuovo corso era cominciato lì, con l’attenta regìa di Vincenzo Spadafora, il fidatissimo responsabile delle relazioni istituzionali di Di Maio, ex responsabile di Unicef Italia, con buoni rapporti in Vaticano, anche lui ora approdato tra i deputati.

Mentre Beppe Grillo e Alessandro Di Battista tenevano viva l’anima barricadera e movimentista delle origini, a suon di show, comizi e parole ancora dure contro l’establishment, Di Maio - sotto l’occhio più che vigile di Davide Casaleggio - tesseva la sua rete. Fatta, all’interno, di un cordone di fedelissimi pronti ad affrontare i dossier più spinosi (come Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, gli “emissari” inviati in Campidoglio all’apice delle difficoltà della giunta Raggi) e, all’esterno, di demolizione graduale dei tanti tabù sui quali il M5S ha costruito la sua fortuna: prima i legami con le lobby un tempo odiate, poi i rapporti con gli investitori e il mondo delle imprese, infine la giravolta più importante. Quella sull’Europa, centrale anche per il riposizionamento agli occhi del Quirinale.

C’è una data da cerchiare in rosso sul calendario della svolta moderata del M5S di cui Di Maio è artefice e incarnazione: il 4 ottobre 2017. Il vicepresidente della Camera è stato appena incoronato a Rimini capo politico e candidato premier del Movimento. Undici giorni dopo chiede e ottiene un incontro con il presidente Mattarella. Profetico il resoconto pubblicato sulla pagina Facebook di Di Maio: «Dopo essere stato scelto come candidato premier e capo della forza politica, ho ritenuto utile un incontro conoscitivo, anche in vista dei prossimi mesi che saranno molto importanti per il Paese e per il Movimento 5 Stelle. Ho illustrato al presidente il percorso che faremo per la definizione del programma e della squadra di governo con cui ci presenteremo alle prossime elezioni». Di Maio tornerà al Quirinale il 23 febbraio scorso, a due settimane dal voto, ma sarà ricevuto dal segretario generale Ugo Zampetti. La squadra era pronta, bisognava poterla presentare senza che apparisse come uno sgarbo istituzionale. L’unica soluzione era anticiparla al Colle, sfidando le polemiche.

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Anche nei momenti più bui e duri della campagna elettorale, Di Maio ha continuato a “parlare sempre anche a Mattarella”. Il dualismo con Grillo, da Rimini in poi, è diventato evidente. «Doppio registro di comunicazione», lo chiamano nel Movimento. Il 19 gennaio - quando Grillo, Casaleggio e Di Maio sono entrati al Viminale alle 8 del mattino per depositare simbolo e programma - era tempo che il comico non si faceva vedere. Di Maio si era appena sbracciato per dire quello che sarebbe diventato il mantra della campagna elettorale: «La sera delle elezioni lancerò un appello alle forze politiche perché diano fiducia al nostro programma». Grillo aveva provato ancora una volta a uscire dal seminato e a chi gli chiedeva conto della novità di aprire alle alleanze aveva risposto: «Sono domande senza senso: è come dire che un giorno il panda può mangiare carne cruda, noi mangiamo solo cuori di bambù».

Ha vinto Di Maio: sia le faide interne al M5S sia le elezioni. E ora dà le carte nella partita delle presidenze delle Camere e richiama continuamente, insieme ai suoi (si veda, da ultimo, l’intervista del Sole 24 Ore al vicepresidente M5S dell’Europarlamento), la saggezza del capo dello Stato. Prima di oggi, anche lunedì, quando ha detto ai senatori: «Dei ministri parlo con Mattarella». Come a dire: tutto è negoziabile, anche la squadra. La metafora del panda torna utile: discende da orsi che si nutrivano di piante e carne, tecnicamente è un animale onnivoro. Come il Movimento, che in meno di nove anni di esistenza (è nato ufficialmente il 4 ottobre 2009) è riuscito a “cibarsi”, politicamente parlando, di destra e di sinistra, trasformandosi in un nuovo centro, tanto liquido da essere riuscito ad archiviare i vaffa e la retorica no-euro nell’arco di qualche mese senza che la sua base battesse ciglio: una forza pigliatutto. Diranno le prossime settimane se basteranno al M5S, per costruire una maggioranza, il neomoderatismo dimaiano, la pattuglia degli eletti giovani e istruiti in giacca e cravatta, la cortesia istituzionale perseguita con costanza, la post-ideologia che spesso ha semplicemente consentito di oscillare dove più conveniva. O se invece a un certo punto dovrà scegliere cosa essere da grande. Come il panda, diventato erbivoro. Se Mattarella chiederà responsabilità, Di Maio ha arato il terreno per non sottrarsi, anche a costo di rinunce importanti.

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