Che sia un governo politico o un governo di tregua, o, ancora, un esecutivo che nasce da nuove elezioni a luglio o in autunno, il tema in agenda è già segnato. Chiunque siederà a Palazzo Chigi dovrà trovare 12,4 miliardi per evitare che dal 1° gennaio 2019 gli aumenti l’Iva (dal 10 al 12% l’aliquota intermedia e dal 22 al 24,2% quella ordinaria). Senza considerare i 19,1 miliardi che serviranno poi per disinnescare i rincari previsti dal 1° gennaio 2020 (con le aliquote Iva che salirebbero rispettivamente al 13 e al 24,9%). Una spada di Damocle che si trascina ormai dal 2011, quando si iniziò a parlare per la prima volta delle “clausole di salvaguardia”.
La nascita delle clausole con la crisi del 2011
Con clausole di salvaguardia si intendono quelle misure prese per cercare di “salvaguardare” i vincoli Ue di bilancio dalle spese previste, in sostanza per tutelare i saldi di finanza pubblica. L’antefatto risale all’agosto del 2011, con la crisi dei conti pubblici che avrebbe portato a novembre alla caduta del governo Berlusconi.
Manovra di ferragosto 2011 e il primo aumento Iva
Il decreto legge 138/2011 (la cosiddetta manovra di Ferragosto) dispone l’aumento dell’aliquota Iva dal 20 al 21% (che comporta un maggior gettito di 700 milioni nel 2011 e 4,2 miliardi annui dal 2012) e nella manovra è inserita anche, appunto, una “clausola di salvaguardia”: se il governo non riesce a trovare, entro il 30 settembre 2012, 20 miliardi attraverso razionalizzazioni della spesa sociale, quelle risorse saranno reperite con un taglio delle agevolazioni fiscali o un aumento delle imposte indirette (tra cui rientrano l’Iva e le accise sui carburanti).
Monti e il consolidamento con il Salva-Italia
A fine 2011 Mario Monti, con il suo governo dei tecnici, prende il posto di Berlusconi: con il decreto Salva-Italia di fine 2011, si decide di blindare la clausola di salvaguardia prevista dal governo precedente, con un aumento dell’Iva di 2 punti percentuali: a partire da ottobre 2012 da 10 a 12 l’aliquota ridotta, e da 21 a 23 l’aliquota ordinaria; con un ulteriore aumento di 0,5 punti dal 2014 per arrivare a regime a 12,5 e 23,5%.
La prima “sterilizzazione” del 2012
Per evitare gli effetti recessivi delle clausole, con il decreto sulla Spending Review dell’estate 2012 il governo Monti decide però di posticipare l’aumento di due punti delle due aliquote al 1° luglio 2013. La misura è ulteriormente rafforzata con la legge di stabilità 2013 che dispone la sterilizzazione dell’incremento di un punto dell’Iva ordinaria per il 2013 e la completa sterilizzazione dell’aliquota ridotta a partire dallo stesso anno (con una diminuzione del gettito di 4,4 miliardi nel 2013 e 2,3 miliardi in ciascun anno del biennio successivo).
L’aumento dell’Iva di un punto con il governo Letta
Inizia la nuova legislatura nel 2013 e l’avvio travagliato si risolve con la nascita del Governo Letta, con l’appoggio, all’inizio, anche di Silvio Berlusconi. In cima al programma dell’esecutivo c’è proprio lo stop ai rincari: il governo riesce a recuperare il miliardo necessario per posticipare dal 1° luglio al 1° ottobre l’aumento dell’Iva dal 21 al 22%. Ma il venire meno dell’appoggio del Cavaliere al governo Letta porta con sé anche l’aumento dell’aliquota (al 22%, il livello tuttora in vigore per quella ordinaria).
Sterilizzazione delle clausole con il governo Renzi
A febbraio 2014 entra in carica Matteo Renzi premier. Il governo con la legge di stabilità per il 2015 riesce a sterilizzare le clausole previste dalla ultima legge di stabilità (2014) del governo Letta (che prevedeva rispettivamente 3 miliardi di euro per il 2015, 7 miliardi per il 2016 e 10 miliardi per il 2017). È lo stesso Renzi, però, a introdurre nuove clausole aggiuntive sempre con la legge di stabilità 2015 (12,8 miliardi sul 2016 19,2 sul 2017 e 22 miliardi dal 2018). L’ex rottamatore riesce a sterilizzare le clausole per il 2016. L’ultima manovra di Renzi, quella per il 2017, evita l’aumento Iva e accise che vale 15,3 miliardi quell’anno, ma per il 2018 il governo Gentiloni (subentrato a Renzi proprio pochi giorni dopo l'ok definitivo alla legge di bilancio 2017) si trova a dover reperire 19,5 miliardi.
Gentiloni e il primo stop con la manovrina
Il governo Gentiloni, in carica dal 12 dicembre 2016, ha ereditato dalla ultima manovra del governo Renzi i seguenti aumenti dell’Iva previsti per il 2018: un incremento dal 10% all’11,5% dell’aliquota ridotta e un passaggio dal 22% al 25% per l’aliquota ordinaria. Misure che garantiscono incassi per 19,5 miliardi. Per scongiurare questi rincari, Gentiloni, un po’ a sorpresa, ha iniziato una parziale sterilizzazione con la “manovrina” varata il 24 aprile 2017: ha recuperato risorse pari a 3,8 miliardi che hanno fatto scendere a quota 15,7 i miliardi da trovare per evitare i rincari nel 2018.
Gentiloni e la “seconda tappa” del decreto fiscale
Il secondo passo di Gentiloni è stato compiuto a fine 2017 con il decreto fiscale che accompagna la manovra 2018: ha recuperato non solo 840 milioni per ridurre dall'11,5% all'11,14% il rincaro per l'aliquota ridotta dell'Iva, ma ha anche trovato 340 milioni per scongiurare l'aumento delle accise nel 2019.
Il terzo step con la manovra 2018
Qui entra in gioco il disegno di legge di Bilancio 2018: il testo prevede la completa sterilizzazione dell’Iva per il 2018, con il reperimento di 14,9 miliardi: l’aliquota ridotta resta al 10% e quella ordinaria al 22%. Tuttavia, il governo Renzi ha lasciato in eredita l’aumento dell’Iva e delle accise anche per il 2019: l’aliquota ridotta è prevista in aumento al 12% e l’aliquota ordinaria al 25,4% .
Gentiloni e la parziale sterilizzazione per il 2019
Con la manovra 2018, tuttavia, il governo in carica si è portato un po' avanti, reperendo 6,1 miliardi per la parziale sterilizzazione 2019: allo stato attuale l’aliquota ridotta nel 2019 dovrebbe salire “solo” all’11,5% e quella ordinaria al 24,2%. Per la totale sterilizzazione dell'aumento Iva 2019, il prossimo governo, qualunque sia il suo colore, dovrà ancora reperire 12,4 miliardi.
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