Non sappiamo se anche l’ultima ipotesi uscita dalla difficile trattativa a Movimento 5 Stelle e Lega non vedrà la luce. Ma l’idea di una staffetta a Palazzo Chigi conferma comunque quanto visto in questi primi due mesi di cosiddetta Terza Repubblica: il saccheggio del lessico e degli strumenti tipici della prima e a lungo disprezzata Repubblica.
Un’operazione attuata proprio dai protagonisti di quella che dovrebbe essere invece l’alba di una nuova era politica che brucia i ponti con un passato (a detta loro) da dimenticare.
Il paradosso non investe solo il M5S, il più giovane movimento presente in Parlamento (anno di fondazione 2009). Ma anche l’altro socio della futuribile maggioranza, il Carroccio, nato negli anni Ottanta proprio per combattere i vizi di “Roma ladrona” e i democristiani, «furfanti e farabutti che tradivano il Nord», come diceva Umberto Bossi. Per uscire da uno stallo che si avvicina al primato repubblicano (ancora detenuto dal primo governo Amato con 82 giorni di gestazione) la “strana coppia” penta-leghista rispolvera una soluzione di 35 anni fa, quando il socialista Bettino Craxi (milanese, come Salvini) e il dc Ciriaco De Mita (campano, come Di Maio) si incontrarono in un convento dell’Appia Antica per siglare un accordo che doveva portare a Palazzo Chigi prima il leader socialista, poi il segretario dell Dc. La staffetta non funzionò, perché dopo quattro anni al Governo, Craxi sbarrò la strada all’uomo di Nusco sostenendo che «il patto della staffetta è un abuso». Era il 1987 e alle elezioni politiche arrivò in Parlamento un senatore di una piccola formazione, la Lega Lombarda: era il 45enne Umberto Bossi (l’età che ha ora Salvini).
Ha stupito ma ha finito per essere risucchiata nel gorgo delle mille dichiarazioni la disinvoltura con cui Luigi Di Maio ha attinto alla vecchia formula andreottiana dei “ due forni”. Una politica che doveva consentire alla Dc di cuocere il pane alternativamente, al forno socialista o a quello comunista, e che nelle intenzioni del giovane capo politico del movimento gli ha permesso di rivolgersi prima alla Lega, poi al Pd, salvo tornare a un accordo con Salvini. E del resto l’accostamento con il “Divo Giulio” non è una novità per Di Maio: «Ora sembro Andreotti - disse da giovane vicepresidente della Camera - ma M5s non è un movimento che aggredisce, abbiamo portato avanti il rispetto per le istituzioni».
Il contagio da Prima Repubblica, forse per effetto del ritorno al proporzionale dopo gli anni del maggioritario, ha finito per intaccare pure un movimento nato per seppellire quell’epoca: Forza Italia. In caso di nascita del governo giallo-verde Silvio Berlusconi ha fatto sapere ieri ai colleghi popolari a Sofia che il partito da lui fondato darà voto contrario. Ma il suo passo indietro che ha dato il via alla trattativa tra Di Maio e Salvini è stato annunciato da Giovanni Toti con la formula «astensione critica o benevola». Un neologismo dalla forte assonanza con antiche formule politiche: come quella della non-opposizione del Pci di Enrico Berlinguer che nel 1976 permise di avviare il governo di solidarietà nazionale (un monocolore guidato da Andreotti).
Nelle prossime ore si capirà se questa attrazione lessicale per la “Prima Repubblica” può garantire alla nuova quel pregio che, pur tra mille difetti, tutti sono disposti a riconoscere alla vecchia politica: la capacità di tessere accordi.
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