Negli ultimi giorni è tornata a imperversare in Rete una della «prove inconfutabili» della connivenza tra Ong e traffico di esseri umani: la tracciatura via Gps della rotte della imbarcazioni, dove si evidenziano spostamenti bilaterali fra le coste italiane e quelle libiche. L’origine del tutto è un video risalente a un anno fa e capace, a suo dire, di «svelare la verità sui “migranti” (tra virgolette, ndr)» con un metodo abbastanza artigianale: il monitoraggio delle imbarcazioni provviste di Automatic identification system, un sistema di monitoraggio automatico installato a bordo.
L’autore della clip, uno studente universitario, ha usufruito di MarineTraffic, sito che offre un servizio di tracking delle imbarcazioni, per seguire passo a passo le rotte di navi «sospette» di Ong e arrivare a una conclusione: le organizzazioni attive nel Mediterraneo fanno da «taxi del mare» verso l’Italia perché entrano nelle acque territoriali della Libia e, per giunta, non depositano i migranti nel porto più vicino, identificato con lo scalo tunisino di Zarzis.
Il video in questione è già stato messo alla prova da diversi fact-checking (tra i più dettagliati quello del blogger David Puente), dove emergono alcune forzature, una scarsa conoscenza del diritto e una imparzialità almeno dubbia (il video si conclude con l’invito ad acquistare un libro del giornalista Mario Giordano che si intitola «Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business dei migranti»). Il concetto di fondo, però, è riuscito a circolare bene sui social: «basta guardare sul Gps» per avere la prova che le Ong soccorrono migranti per soldi, come testimonierebbero la rotta (Italia-Libia-Italia) e il fatto di evitare lo scalo più comodo (Tunisia). Il problema è che non è vera né la prima né la seconda tesi.
Ma le Ong non “vanno a prenderli in Libia”?
La prima argomentazione è che le Ong andrebbero a «prelevare» i migranti direttamente sulle coste della Libia, perché video e immagini tratte da Gps mostrano alcune imbarcazioni fare avanti e indietro dall'Italia alla costa nordafricana. Di fatto, però, quegli spostamenti sono legali (non esistono norme che vietino l’ingresso in acque libiche), connaturati al ruolo di una Ong (che si muove sempre in acque extraterritoriali, intervendo laddove è necessario) e, in particolare, non si traducono necessariamente in quello che viene considerato il loro «business», cioè il salvataggio di persone. Il perché è semplice: tutte le operazioni di soccorso sono coordinate da una serie di attori istituzionali, a partire dalla nostra Guardia costiera.
«Le Ong lavorano sotto il coordinamento della guardia costiera italiana operando nelle zone dove avvengono i naufragi - spiega Marco Bertotto, responsabile advocacy di Medici senza frontiere - In alcuni casi i naufragi avvengono più in prossimità delle coste libiche, e anche in quei casi si seguono ovviamente le indicazioni da terra». In un’audizione al Senato risalente al marzo 2017, gli stessi ufficiali della Guardia costiera hanno smentito la teoria del cosiddetto pull-factor: cioè che le imbarcazioni delle Ong sarebbero un «fattore di richiamo» per le partenze verso l’Italia. L’ammiraglio Vicenzo Melone ha spiegato che le Ong «devono essere considerate, a tutti gli effetti, risorse utili ai fini dell’attività di soccorso», mentre l’ammiraglio Donato Marzano «ha rilevato che le Ong non costituiscono intralcio alle attività della Marina militare nell’area». Del resto, l’attività di salvataggio è un obbligo per tutte le imbarcazioni che si trovino in zona utile. Dati della Guardia costiera mostrano che oltre il 15% delle persone salvate nei primi quattro mesi del 2017 sono state “recuperate” da navi mercantili.
E il «porto sicuro» di Zarzis?
L’altra tesi è che le imbarcazioni delle Ong «puntino» sull’Italia perché le darebbero precedenza su porti più vicini. Ad esempio quello di Zarzis, uno scalo di piccole dimensioni nel sud della Tunisia. In realtà, ai sensi della Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, siglata ad Amburgo nel 1979, le operazioni di salvataggio devono condurre al cosiddetto place of safety («luogo sicuro»). Ed è qui che si genera l’equivoco: «Il punto è che il porto deve essere “sicuro” anche dal punto di vista dei diritti umani, ai sensi della Convenzione di Ginevra - prosegue Bertotto - E questo non è garantito dalla Tunisia, che peraltro non ha dimostrato di essere disponibile».
Quanto spendiamo davvero
Infine c’è la questione che scalda di più il dibattito: i soldi. Grosse Ong come Medici senza frontiere, oggi presenti nel Mediterraneo solo con il suo staff sulle imbarcazioni di Sos Méditerranée, sono finanziate esclusivamente da privati (lo si può scoprire direttamente dai loro bilanci). Quanto all’investimento dell’Italia, intesa come Stato, Salvini ha sottolineato che il nostro Paese ha speso l’anno scorso 4,3 miliardi di euro per finanziare il sistema di assistenza, accoglienza, formazione e soccorso in mare. Il dato era previsto nel Documento programmatico di bilancio del 2017 (4,26 miliardi di euro nello «scenario di crescita», lo 0,2% del Pil). Nel 2018 il totale dovrebbe salire a circa 5 miliardi di euro, anche se la spesa verrà «scomputata» dal conto su debito e deficit pubblico ai sensi dei parametri europei. A proposito di Ue: da Bruxelles sono arrivati 87 milioni di euro nel 2017.
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