(Post tratto dalla pagina Facebook dell’autore)
Il tragico crollo di circa 200 metri del viadotto Morandi a Genova ci consegna – oltre a un doloroso bilancio di vittime –
due gravissime emergenze che non investono solo il capoluogo ligure, ma l'intera Italia.
La prima emergenza riguarda l'interruzione di un asse viario essenziale non solo tra Genova Ovest ed Est - che ora rischiano di essere di fatto per anni quasi separate come Berlino ai tempi della Guerra fredda - , ma anche tra il porto di Genova, il maggior scalo di container italiano, e l'intero asse occidentale della E80, che da Lisbona giunge fino al confine orientale dell'Anatolia. Per aggirare l'interruzione del ponte Morandi ora servirà salire fino a Novi Ligure per poi riscendere verso la A7 e reinstradarsi nella A12, che va verso La Spezia. E' un collo di bottiglia micidiale per la movimentazione delle merci portuali in partenza e in arrivo, comporta due ore minime di percorso in più, e un danno non solo per la vita quotidiana dei genovesi ma per le attività economiche locali e nazionali complessivamente valutabile in diversi miliardi di euro l'anno.
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Una simile emergenza su un asse viario di rilevanza europea dovrebbe immediatamente condurre il governo a soluzioni progettuali ed esecutive, sulla base di appropriate valutazioni costi-benefici, con un cronoprogramma il più spedito possibile. E' una vera emergenza nazionale.
La seconda emergenza si desume invece dalla lunga storia insita nella tragedia del 14 agosto. È una storia, purtroppo, specchio dei tempi che viviamo da alcuni decenni nelle opere pubbliche del nostro Paese. Stretti dall'incapacità di farne di nuove – per le mille obiezioni e resistenze ai progetti, per l'inconcludenza delle conferenze di servizio con le Autonomie locali, per il regime di reiterate impugnative – i decenni passano invano: e così le opere nuove non si fanno, e nel frattempo quelle antiche vanno incontro all'inevitabile usura di carichi di traffico sempre maggiori. E talora, tragicamente, crollano. Ed è anche questa una vera emergenza nazionale, visto che l'Istituto per la Tecnica delle Costruzioni del CNR ha ricordato che in Italia «sono migliaia i ponti stradali ad aver superato i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile associabile alle opere in calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra. Hanno superato, oggi, la durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti».
Visto che saranno a questo punto le indagini della magistratura e tecniche a far luce sul crollo di Genova, che cosa sappiamo
comunque già fin d'ora, per poter giungere a questa prima durissima conclusione? Mettiamole in fila.
Primo: le obiezioni e i dubbi tecnici sulla tenuta del ponte Morandi erano state avanzate da anni. Il professor Antonio Brencich, docente di tecnica delle costruzioni in cemento armato all'Università di Genova, nel 2016 aveva diffusamente e criticamente argomentato sulla tenuta della portanza dell'opera realizzata secondo il brevetto-Morandi. «Il ponte Morandi è un fallimento dell'ingegneria»,
aveva detto, «e già alla fine degli anni Novanta il costo complessivo nei decenni della manutenzione aveva superato l'80%
del costo di sostituzione». Le critiche trovarono eco anche in interrogazioni parlamentari, alle quali seguirono rassicurazioni drammaticamente smentite. Prima di allora, già nel 2012 Confindustria Genova aveva preconizzato l'eventualità del crollo dell'opera, visti i suoi storici problemi legati alle tecniche di realizzazione e considerato il carico crescente di traffico. Ma la
reazione furono sberleffi.
Secondo: la sostituzione del discusso ponte Morandi era infatti prevista nella prima versione della Gronda di ponente, il nuovo passante autostradale genovese per alleviare l'A10 la cui storia iniziale risale addirittura al 1984, e poi fermata dal TAR nel 1990. A questo seguì il cosiddetto progetto della Gronda Bassa, che avrebbe appunto consentito l'abbattimento del ponte Morandi, favorevoli Anas e Regione Liguria ma contrari Comune e Provincia. Che poi verrà accantonato per ragioni ambientali a favore, nel tempo, di altri tragitti spostati dalla città alla montagna: la Gronda Alta che da 17 passava a 28 km di cui 20 in galleria e 2,5 in viadotto; poi la Gronda Ampia ancora più a Nord che diventava di quasi 40 km e raddoppiava i costi; infine una nuova Gronda Bassa che tagliava i costi a 2,5 miliardi ma con tunnel sotto il Polcevera, proprio il torrente scavalcato dal ponte Morandi. Tutti coloro che hanno detto No all'idea stessa della Gronda e ai sui primi ipotizzati tragitti a valle hanno una pesante responsabilità storica, dopo la tragedia del 14 agosto.
Terzo: l'opposizione alla Gronda di movimenti ambientalisti e poi da parte del Movimento Cinque Stelle è sempre stata forte e decisa. Tanto che ancora nel 2013 sul sito ufficiale del Movimento un documento ufficiale attaccava come infondata “favoletta” quella dei dubbi sulla tenuta del ponte Morandi, una scusa insomma per realizzare l'inutile
Gronda, e respingendo frontalmente le considerazioni che fin dal 2009 erano state avanzate da Autostrade per l'Italia, la concessionaria privata dell'A10 che aveva proposto la Gronda Bassa e l'abbattimento del ponte Morandi, giustificata considerando
l'ormai inadeguatezza dell'opera «visti i 25 milioni di transiti l'anno, il quadruplicamento del traffico nei precedenti 30
anni, destinato a crescere di un ulteriore 30% nei successivi». Nessuna sorpresa dunque che l'attuale ministro alle Infrastrutture
Toninelli abbia posto la Gronda nell'elenco delle opere pubbliche che, come la TAV Torino-Lione e tante altre, il governo
si riserva di riconsiderare o annullare. Peccato che, in questo caso, gli allarmi sul ponte Morandi per procedere alla realizzazione
della Gronda – oltre alla congestione perenne dell'asse unico autostradale urbano genovese - sia siano rivelati tragicamente
fondati. Quindi ora, grazie al partito del no pregiudiziale, niente infrastruttura nuova e nemmeno più quella vecchia, oltre
il bilancio terribile delle vittime.
Quarto: l'Europa e le sue regole di bilancio pubblico, contro cui qualcuno del governo a cominciare da Matteo Salvini ha tuonato subito, non c'entrano nulla con il crollo del viadotto. Autostrade per l'Italia è concessionario privato del gruppo Atlantia controllato dai Benetton. Il problema semmai in questo caso è un altro. In particolare, e lo accerteranno i magistrati, se la società abbia sempre investito il necessario nei controlli e nella manutenzione del viadotto. In generale, non è possibile saperlo con precisione: visto che, anche dopo il decreto Madia sull'accesso ai dati della PA, l'Italia resta l'unico Paese democratico al mondo in cui le convenzioni autostradali sono secretate, ergo non si può capire con precisione se l'aumento delle tariffe avviene in presenza di reali e verificati investimenti effettuati, o sulla base di quelli annunciati o comunque non verificati.
Quinto: ma quanto spendiamo nel complesso per realizzare nuove infrastrutture di trasporto viario nel nostro Paese? I dati comparati rilasciati dall'OCSE ci parlano di una storia precisa. A euro costanti, al netto delle diverse inflazioni nazionali, l'investimento pubblico italiano per le strade a metà degli anni Novanta era intorno ai 7 miliardi annui, come nel Regno Unito e Spagna, per poi salire oltre 8 miliardi nel 2001, e crescere fino a oltre 15 miliardi nel 2006, superando la Francia a 14 e la Germania a 11 miliardi. Poi la crisi terribile dopo il 2008: l’investimento riscende fino a sotto 4 miliardi annui tra 2010 e 2013, e risale faticosamente sopra i 4 miliardi risuperando la Spagna solo 2015 e scavalcando sopra i 5 miliardi il Regno Unitonel 2016. Ergo sì: lo Stato ha tagliato di brutto gli investimenti sulle strade, e un effetto molto rilevante l'ha esercitato la crisi di spesa dovuta alla trasformazione delle Province (sono oltre 5mila i chilometri di strade provinciali oggi interessate da interruzioni, frane e gravi problemi di tenuta del manto stradale).
Questo però riguarda lo Stato cioè l'Anas: oltre il 50% dei più di 7mila chilometri di autostrade italiane sono gestiti invece dai due maggiori concessionari privati, un altro 20% da altri, i cui investimenti sono stati invece premiati da (opachi, come detto) aumenti di tariffe.
Sesto: a parte la spesa per realizzare strade e ponti nuovi, per la manutenzione stradale quanto spendiamo, per impedire ad esempio che ponti e viadotti crollino, come testimoniato dai casi gravi negli ultimi anni? Ecco, qui i conti non tornano. La fonte è sempre l'International Transport Forum delll'OCSE. E comprende la manutenzione
stimata sia di strade urbane sia extraurbane. A euro costanti 2005, negli anni 2010-2015 l'Italia risulta con una spesa media
in manutenzione stradale di circa 15mila euro a chilometro annuo. Solo la Norvegia ci supera, a quota 17mila. Tutti gli altri
Paesi sono a quote molto più basse: il Regno Unito 8mila euro, l'Austria 7mila, la Francia 4mila, il Belgio 2mila. Verrebbe
da dire che, se i numeri sono corretti, c'è un enorme problema di come li spendiamo davvero, questi soldi. Un enorme problema
di trasparenza e di efficienza dell'allocazione delle risorse pubbliche. Non è affatto vero che lo Stato gestisca le autostrade
meglio dei privati. Basti pensare alla biblica cinquantennale vicenda della Salerno-Reggio Calabria dell'Anas statale, inaugurata
mille volte nei decenni dai politici ma che a tutt'oggi ha ancora 30 cantieri aperti e 8 - i maggiori - sospesi per Ferragosto.
Mentre l'Anas stesso, per salvarlo dai maxi contenziosi, si pensava di annegarlo in Ferrovie prima che il governo attuale
chiedesse a Ferrovie invece di salvare Alitalia: a pasticcio si sostituisce così un pasticcio ancor peggiore.
Due emergenze nazionali, dunque, cui si sommano effetti devastanti del no pregiudiziale a opere nuove. In tutta Italia ponti a rischio e viabilità congestionata sono un cappio al collo dello sviluppo e del lavoro, delle imprese e di milioni di cittadini. C'è bisogno di più investimenti pubblici trasparenti, e di investimenti privati trasparenti. È il modo migliore per non rendere vano il sacrificio doloroso di decine di vittime.
*Post pubblicato sulla pagina Facebook dell’autore
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