Il via libera è arrivato lo scorso 3 luglio dalla Cassazione. «Ovunque venga rinvenuta e presso chiunque» qualsiasi somma di denaro riferibile alla Lega Nord deve essere sequestrata fino a raggiungere quota 48,969 milioni di euro (finora sono stati recuperati dalla Guardia di finanza solo 3,5 milioni). La somma è il provento della truffa ai danni dello Stato tra il 2008 e il 2010 ottenuta falsificando i bilanci del Carroccio per la quale sono stati condannati in primo grado l’ex leader leghista Umberto Bossi e l’ex tesoriere del partito Francesco Belsito.
A tradurre le indicazioni della Suprema Corte spetterà mercoledì 5 al Tribunale del Riesame con una decisione che, denunciano esponenti della Lega a partire da Giancarlo Giorgetti, potrebbe segnare l’estinzione del partito perché comporterebbe il sequestro a tappeto di tutti i soldi che il Carroccio riceverà in futuro.
L’inizio: l’esposto del militante
Per capire, però, come si è arrivati a questo passaggio, occorre fare un lungo passo indietro e fissare la data di inizio
di tutta la vicenda: il 23 gennaio 2012. Quel giorno un militante della Lega si presenta in Procura a Milano con un esposto
contenente una serie di articoli di stampa in cui si parla di investimenti anomali fatti dal Carroccio in diamanti in Tanzania
e conti offshore a Cipro. È lo scandalo che travolge Bossi (il quale il 5 aprile di quello stesso anno deve dimettersi dalla
guida del partito da lui fondato) e la sua famiglia: soldi pubblici entrati nelle casse del partito come rimborsi elettorali
e usciti senza giustificativi in quanto usati in spese personali per “the family” (come recitava la scritta sulla cartelletta
sequestrata dalla guardia di finanza negli uffici della Camera).
I quattro filoni
Parte l’inchiesta giudiziaria che genererà quattro tronconi. Nel primo, a Milano, il fondatore del Carroccio, insieme al
figlio Renzo (ex consigliere regionale della Lombardia) e all’ex tesoriere del partito Belsito (già vicepresidente di Fincantieri
e sottosegretario all’Interno), vanno a processo con l’accusa di appropriazione indebita. Per l’accusa tra il 2009 e il 2011
Bossi avrebbe speso oltre 208mila euro con i fondi del partito, il “trota” più di 145mila euro: in particolare migliaia di
euro in multe, tremila euro di assicurazione auto, 48mila euro per comprare un’auto (Audi A6) e 77mila euro per la “laurea
albanese”. Nello stesso periodo, invece, l’ex tesoriere si sarebbe appropriato di circa mezzo milione di euro. La sentenza arriva il 10 luglio del 2017: due anni e tre mesi a Bossi, un anno e mezzo al figlio Renzo e due anni e sei mesi a Belsito. Secondo le motivazioni Bossi
sarebbe stato «consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro» della
Lega, ma proveniente «dalle casse dello Stato» per coprire «spese di esclusivo interesse personale» suo e della sua “famiglia”.
Condotte, ha sottolineato il giudice, portate avanti «nell’ambito di un movimento» cresciuto «raccogliendo consensi» come
opposizione «al malcostume dei partiti tradizionali». Il processo di appello è fissato per il 10 ottobre.
Rito abbreviato per Riccardo Bossi
Nel frattempo, però, il primogenito del Senatùr, Riccardo, anche lui imputato a Milano per una serie di spese con i fondi
del partito per un totale di circa 158mila euro, aveva scelto il rito abbreviato: secondo l’accusa avrebbe usato i soldi pubblici
per pagare debiti personali, «noleggi auto», le rate dell’università dell’Insubria, l’affitto di casa, il «mantenimento dell’ex
moglie», l’abbonamento alla pay-tv, «luce e gas» e anche il «veterinario per il cane». La sentenza di questa seconda tranche arriva il 14 marzo 2016: condanna a un anno e 8 mesi per appropriazione indebita aggravata (superiore alla richiesta dei Pm che era di un anno).
Nelle motivazioni il giudice scrive che dalle intercettazioni tra l’ex tesoriere e l’ex segretaria di via Bellerio Nadia
Dagrada emerge che «dopo la malattia di Umberto Bossi (l’ictus che lo colpì l’11 marzo 2004, ndr), non solo costui, ma la moglie e i figli erano interamente mantenuti dalla Lega e che i “costi dei ragazzi” erano addirittura
di gran lunga superiori a quelli che lo stesso segretario della Lega immaginava».
A Genova la parte principale
La terza e più importante tranche del procedimento, quella incentrata sulla truffa sui rimborsi elettorali tra il 2008 e il
2010 da quasi 50 milioni di euro ai danni dello Stato della quale si è tornati a parlare in questi giorni, viene trasferita
a ottobre del 2014 da Milano al Tribunale di Genova per competenza territoriale. È, infatti, su un conto intestato a Belsito
e aperto presso una filiale genovese di Banca Aletti che venne accreditata l’ultima tranche dei rimborsi elettorali. A essere
imputati sono Bossi, Belsito e tre ex componenti del comitato di controllo di secondo livello della Lega (Stefano Aldovisi,
Diego Sanavio e Antonio Turci). Camera e Senato si costituiscono parte civile. La sentenza di primo grado arriva il 24 luglio del 2017: condanna a 2 anni e sei mesi per l’ex leader della Lega e a 4 anni e dieci mesi per Belsito (il pm aveva chiesto la condanna
a quattro anni per Bossi e quattro anni e mezzo per l’ex tesoriere) per truffa e appropriazione indebita dei rimborsi di Camera
e Senato. Condanne anche per gli ex revisori e due imprenditori, Paolo Scala e Stefano Bonet. Questi ultimi a cinque anni
ciascuno: insieme a Belsito sono accusati, oltre che di truffa aggravata, anche di riciclaggio perché avrebbero portato oltre
confine, a Cipro e in Tanzania, parte dei soldi ottenuti illecitamente. La sentenza di appello è in attesa in autunno.
Il sequestro dei fondi
Si arriva così alla vicenda del sequestro dei fondi che è diventata un caso politico di primo piano. Il Tribunale che ha condannato
Bossi e Belsito dispone, su richiesta della Procura, di procedere al sequestro “a tappeto” su conti correnti e depositi riferibili
al partito nel frattempo guidato da Matteo Salvini fino a raggiungere i 49 milioni di euro, provento della truffa allo Stato.
Il Riesame boccia la richiesta. Ad aprile, però, la Cassazione dà ragione alla procura di Genova. A inizio luglio la Corte Suprema deposita le motivazioni secondo le quali la Guardia di finanza può procedere al blocco dei conti della Lega in forza del decreto di sequestro, emesso
l’anno prima, senza necessità di un nuovo provvedimento per eventuali somme trovate su conti in momenti successivi al decreto.
Salvini parla di «sentenza politica» e promette di parlarne con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Domani (ma la decisione dovrebbe arrivare giovedì) i giudici del Riesame sono chiamati a pronunciarsi sui sequestri da mettere
in atto su «somme di denaro depositate su conti correnti e/o libretti di risparmio e/o depositi bancari intestati o comunque
riferibili alla Lega Nord»:
potrebbero accogliere quanto stabilito dalla Cassazione e dare il via libera alla procura, anche se questa decisione può essere
impugnata dalla Lega.
La questione del nome
Per sottrarre al sequestro le somme che il movimento incasserà in futuro, era circolata l’ipotesi che Salvini potesse dare
vita a una nuova formazione con un nome diverso. «Se i giudici (del Riesame, ndr) accogliessero la nostra linea - ha ammesso del resto lo stesso pm di Genova, Francesco Cozzi, al Corriere della Sera - procederemo con il sequestro fino a quando ci saranno soldi disponibili sui conti della Lega ma se viene creato un nuovo
partito non potremmo aggredire i versamenti futuri». Scenario smentito ieri da Salvini a Radio 24: «Da noi non nasce nessun
nuovo partito».
A caccia di fondi tra Bolzano e Lussemburgo
C’è, però, un ulteriore filone (il quarto, partito a gennaio), anche questo a Genova, con l’ipotesi di reato per riciclaggio
per ora a carico di ignoti . Il 28 dicembre 2017, infatti, l’ex revisore contabile Stefano Aldovisi aveva presentato un esposto
in cui precisiva che a fine 2012 - quando Bossi non era più segretario - sui conti della Lega c’era disponibilità per 40 milioni
di euro e indicava operazioni all’estero. In particolare l’attenzione si concentra su un trasferimento di 10 milioni di euro
da Sparkasse di Bolzano in un fondo fiduciario (Pharus) in Lussemburgo. L’istituto sostiene che si tratta di ordinarie operazioni
di investimento ma dopo le elezioni politiche dello scorso 4 marzo, l’autorità lussemburghese ha bloccato per dieci giorni
il trasferimento di tre milioni di euro di rientro in Italia e ha informato i colleghi italiani perché sospetta che l’operazione
possa essere riconducibile proprio ai conti della Lega. Per cercare di fare chiarezza i pubblici ministeri genovesi hanno nominato come consulenti gli ispettori della Uif, Unità
di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Si tratta di ricostruire l’intreccio di società, associazioni e fiduciarie che sarebbero state create durante il processo
a Bossi e Belsito - quando a guidare il partito è arrivato Roberto Maroni e in seguito Matteo Salvini - per la truffa ai
danni dello Stato: una quindicina di “satelliti” di cui si deve capire se abbiano ottenuto soldi dal movimento o per suo conto
o se, invece, siano soggetti autonomi. L’ipotesi è, quindi, che i soldi chiesti e incassati illecitamente dalla Lega ai tempi
di Bossi e Belsito, non siano stati ancora spesi ma occultati dalla dirigenza del Carroccio per sottrarli al sequestro.
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