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Dal Def alla manovra: il percorso a ostacoli della legge di bilancio fino a Natale

NaDef, Dpb, output gap, deficit nominale e saldo strutturale. Il dibattito di queste settimane rimbalza fra «vertici sulla manovra», tweet dei protagonisti, interviste e soffiate più o meno interessate, in un rimpallo disordinato fra obiettivi di deficit e rilanci su reddito di cittadinanza, pensioni, tasse e investimenti.

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Ma il percorso che porta dai programmi agli articoli e ai commi della legge di bilancio è scandito da scelte precise che vanno assunte seguendo un calendario predefinito, disegnato nel 2016 dalla riforma della contabilità (quella che ha ribattezzato in legge di bilancio la vecchia legge di stabilità).

Ed è bene conoscerlo. Perché la politica parlerà di manovra tutti i giorni, fino a Natale. E sapere come funzionano gli snodi del meccanismo è utile per evitare di scambiare ogni dichiarazione come decisiva.

Legge di bilancio / Quando arrivano i numeri ufficiali su deficit e debito?
Il 27 settembre, con la Nota di aggiornamento al Def (NaDef)
La prima tappa è la Nota di aggiornamento al Def che il governo deve presentare al Parlamento entro giovedì 27 settembre. La Nota è sempre importante, perché fa tesoro di quello che è successo all’economia e alla finanza pubblica nel corso degli ultimi mesi. Ma quest’anno ha un valore aggiuntivo. Il governo giallo-verde, che si è insediato all’inizio di giugno dopo tre mesi di stallo post-elettorale, si è finora limitato a ereditare il Def preparato da Padoan e Gentiloni, che fotografava le prospettive di crescita, debito e deficit a legislazione vigente. Il governo Gentiloni, infatti, non ha scritto un programma di finanza pubblica perché era in uscita; il governo Conte non l’ha fatto perché appena insediato non aveva una linea comune sul tema, come mostra la faticosa ricerca di un accordo che prosegue in questi giorni.

L’assenza di un programma definito ha alimentato la girandola di prese di posizione di governo e maggioranza sullo sforamento dei tetti di deficit, che ha mandato in altalena spread e rendimenti dei Btp. La Nota di aggiornamento fornirà quindi la prima proposta ufficiale del governo su dove portare nei prossimi tre anni debito e deficit, anche sulla base delle previsioni di crescita influenzate dalle misure che il governo ha intenzione di prendere per favorirla (rilancio degli investimenti, interventi fiscali su imprese e famiglie, eccetera).

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È una decisione definitiva?
No, l’ultima parola tocca al Parlamento
Attenzione, si tratta di una proposta perché il Parlamento ha un ruolo chiave. I numeri, che devono essere «validati» dall’Ufficio parlamentare di Bilancio (l’Authority indipendente, composta da tecnici di alto livello, creata dalla riforma della contabilità), proporranno obiettivi diversi da quelli scritti ad aprile, che per il 2019 puntavano a un indebitamento netto dello 0,8% del Pil, dimezzato rispetto a quest’anno, e a un deficit strutturale (cioè al netto degli effetti del ciclo economico e delle una tantum) dello 0,4%, contro lo 0,8% previsto per quest’anno. A cambiare questi dati intervengono due fattori: la frenata dell’economia, che aumenta il peso dell’indebitamento netto sul Pil, e le scelte del governo, che puntano a un deficit più alto per finanziare almeno una parte delle misure del programma. Tria chiede di «non peggiorare» i livelli di quest’anno, M5S e Lega premono per spazi aggiuntivi, ma in entrambi i casi serve più deficit rispetto ai programmi. E per ottenerlo occorre che il Parlamento dia il via libera, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Quando parte il confronto con l’Ue?
Il 15 ottobre, con il programma di bilancio
Superato lo scoglio della Nadef, bisogna passare a Bruxelles. Entro il 15 ottobre, tutti i Paesi dell’Eurozona devono inviare alla commissione Ue il proprio Dpb (Draft Budgetary Plan), che oltre alle tabelle dei programmi di finanza pubblica deve indicare le misure che serviranno ad attuarli. Il confronto informale con la commissione è partito da mesi, secondo una liturgia allungata anche dalla difficoltà di assumere decisioni drastiche a pochi mesi da elezioni europee considerate una prova del fuoco per la tenuta dell’Unione. Ma con il Dpb la discussione cresce di livello. Nel documento vanno indicati tutti i capitoli principali della manovra, dagli interventi sulle pensioni a quelli su reddito di cittadinanza e fisco, e ogni descrizione è accompagnata da un numeretto che misura la spesa prevista; nel caso di interventi di spending review va indicato il peso degli tagli previsti, mentre per misure come la revisione degli sconti fiscali (se mai si faranno) bisogna scrivere le maggiori entrate previste.

Quando decide la Commissione?
Tempi lunghi, fra numeri (cervellotici) e politica
Se vincerà la “linea Tria” sul deficit, e non ci saranno quindi rotture plateali immediate, la cautela europea porterà a un lungo confronto a media temperatura sui conti italiani. Sul piatto c’è anche la correzione da 5 miliardi (tre decimali di Pil) chiesta sul 2018 e poi rimandata all’anno prossimo, in un procedimento che potrebbe non vedere conclusioni definitive fino alla prossima primavera. Naturalmente tutto dipende dal rapporto fra la proposta italiana e la complicata contabilità europea, tenendo conto di almeno due elementi.

Quanto deficit possiamo fare secondo la Ue?
Dipende…
L’economia in frenata modifica l’output gap, cioè la distanza fra crescita potenziale e quella reale che in base ai calcoli europei riduce le esigenze di correzione quando il Pil fatica. I calcoli sulla crescita potenziale sono da anni contestati dall’Italia (e dagli altri Paesi mediterranei) perché la sottostimano, e quindi aprono le porte a richieste di correzione più pesanti. Secondo i parametri europei, per esempio, la crescita reale italiana aveva raggiunto il suo potenziale massimo nonostante l’anno si sia chiuso con una disoccupazione generale al 10,8% (contro il 6,1% del 2007), una disoccupazione giovanile al 32,2% e una produttività stagnante.
Sul deficit “tollerabile” per Bruxelles pesa anche un’altra variabile. Per evitare l’ammonizione Ue occorre evitare che la deviazione sia «significativa». Ma in base a cosa? Anche qui, come capita spesso con la cervellotica contabilità europea, la risposta è «dipende». Rispetto allo 0,6% di riduzione del deficit strutturale in calendario per il 2019, sarebbe sufficiente una limatura dello 0,1% per evitare di sforare il “margine di tolleranza” dello 0,5%. Sull’orizzonte biennale, invece, grazie anche alla (ennesima) grossa dose di flessibilità riconosciuta anche lo scorso anno, che ha abbassato a 3 decimali di Pil la richiesta di correzione strutturale, la riduzione annua media necessaria nel 2018 e 2019 per non uscire dai binari europei sarebbe dello 0,2%. Il calcolo è teorico quanto si vuole, ma le conseguenze sono pratiche, soprattutto in un momento così delicato per i rapporti fra Roma e Bruxelles e per il giudizio “sospeso” degli investitori sul nostro debito. Il primo giudizio Ue arriverà il 30 novembre, e sarà un passaggio importante in un iter che si conclude nella primavera prossima con i dati consuntivi sul 2018.

Il debito pubblico è in discesa?
No, ed è un problema
Contabilità e politica si intrecciano anche sulla questione del debito pubblico, che è il cuore vero del problema italiano. Partiamo dalla contabilità. Ogni Paese dovrebbe ridurre di 1/20 all’anno la distanza che lo separa dal rispetto del tetto del debito al 60% del Pil. Il calcolo avviene guardando la media degli ultimi tre anni (criterio backward looking) e le prospettive dei successivi tre (criterio forward looking). L’Italia non rispettava nessuno di questi due criteri nemmeno con i dati di aprile, che prevedevano per quest’anno un taglio del debito pari all’1% del Pil. Complice la frenata della crescita, le mancate privatizzazioni (erano previste per 5 miliardi nel 2018) e l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, questa riduzione è quasi azzerata, e questo complica i calcoli per il prossimo anno. Qui interviene la politica, perché al di là delle battaglie sui decimali con Bruxelles l’avvio vero e proprio della riduzione del debito, dopo due anni di “stabilizzazione”, è il segnale atteso da tutti gli investitori. E senza questo passaggio la gestione dei 380 miliardi di titoli che il Tesoro dovrà emettere nei prossimi 12 mesi si complica parecchio.

E il Parlamento?
Discussione aperta sulle misure, ma saldi intoccabili
Con questi presupposti si arriva al 20 di ottobre, quando il disegno di legge di bilancio deve arrivare in Parlamento. Lì si apre tutta un’altra partita, che può rimettere in discussione tutte le misure partorite dalla complicata fase di confronto all’interno del governo. La discussione parlamentare è ovviamente sovrana, ma all’interno dei limiti fissati dalle regole di contabilità. I “saldi”, cioè gli effetti complessivi della manovra su entrate, spese e deficit, devono rimanere quelli fissati dalla Nota di aggiornamento al Def approvata con la risoluzione parlamentare. A meno di non voler forzare e alzare i livelli di indebitamento netto decisi poche settimane prima: nel chiacchiericcio di questi giorni è circolata anche l’ipotesi che parti della maggioranza si preparino ad “assaltare” in Parlamento i saldi di finanza pubblica. Ma un percorso del genere, inedito, assesterebbe un colpo difficile da assorbire dalle parti del ministero dell’Economia, con il governo che dovrebbe tornare a chiedere in Parlamento l’autorizzazione a un’altra aggiunta imprevista di deficit.

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