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M5S contro Tria, quattro mesi di assedio al «garante» dei conti…

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tensioni sulla manovra

M5S contro Tria, quattro mesi di assedio al «garante» dei conti pubblici

M5S e Lega contro il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Il copione è noto, e torna ogni autunno all'avvicinarsi della legge di Bilancio: il ministro dell'Economia di turno assediato a via XX settembre in difesa dei conti pubblici e i colleghi di governo in pressing per portare a casa stanziamenti e fondi per le proprie politiche ministeriali. Quello che è cambiato, con il governo M5S-Lega, è il livello dello scontro e la posta in gioco.

Oggi sul tavolo non c'è tanto il via libera a interventi “di settore” (come la riduzione del ticket in Sanità o i concorsi per le scuole), ma lo spazio di manovra per attuare le riforme bandiera (flat tax, superamento della legge Fornero, reddito e pensione di cittadinanza) dei due partiti azionisti dell'esecutivo Conte.

Confronto estivo sul rapporto deficit/Pil
Il confronto sui conti pubblici è andato avanti tutta l'estate, incentrato in pratica sul livello del rapporto deficit-Pil che l'Italia può o non può permettersi. Da un lato il titolare del Mef Giovanni Tria (sponsorizzato dal Quirinale) che punta a mantenere il sotto il 2% del Pil nel 2019, rassicurando al contempo i mercati sugli sforzi per ridurre il debito pur allentando la pressione fiscale. Dall'altro il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini, sicuro che alla fine il tetto del 3% del rapporto deficit/Pil verrà sfiorato «dolcemente». E politicamente rafforzato dal vento in poppa dei sondaggi, legato al suo decisionismo sul fronte migranti e sicurezza che poco ha a che fare con le aspettative dell'elettorato sulla manovra. L'altro vicepremier (e capo politico M5S) Luigi Di Maio, ha ribadito invece a più riprese l'imperativo di mettere gli italiani al primo posto rispetto alle agenzie di rating, aggiungendo nel 2019 dovrebbe partire il reddito di cittadinanza.

Messa in mora per via XX settembre
Con gli ultimi vertici sulla manovra in cantiere ospitati a Palazzo Chigi la tensione interna la governo è però andata aumentando, costringendo Di Maio a gettare acqua sul fuoco delle polemiche alla vigilia del suo viaggio in Cina. «Nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro Tria», ha detto ieri il vicepremier negando l'inasprimento dei rapporti al centro di alcune ricostruzioni giornalistiche, ma «voglio che il ministro dell'Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà e non possono più aspettare, un ministro serio i soldi li deve trovare». Parole nette che apparentemente escludono alcun passo indietro del Movimento sui contenuti del contratto di governo. Le risorse per la manovra saranno reperite con «tagli alle spese ma anche facendo deficit: non serve superare il 3%. L'obiettivo è soddisfare le richieste degli italiani», ha rilanciato poco prima di imbarcarsi per l’oriente.

Tria resiste al pressing
Ma la messa in mora per via XX Settembre, dove continua il lavoro prevalentemente tecnico in vista dell'aggiornamento del Def e della bozza della manovra, sembra più finalizzata a rassicurare l'elettorato grillino (come molte altre uscite estive di Di Maio) che a indebolire Tria. Al di là delle parole e delle polemiche, il ministro guardiano dei conti pubblici nazionali sa di poter contare sull'appoggio del capo dello Stato e sulla fiducia (a tempo) di Bruxelles, della Bce e dei mercati. Al punto da poter resistere al pressing politico più o meno robusto dei vicepremier. Un suo passo indietro, improbabile, certificherebbe infatti solo l'incapacità politica della maggioranza, mettendo a rischio la tenuta stessa dell'Italia. Un azzardo che nessuno ha davvero voglia di rischiare.

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