Ha dato le carte e ha costretto gli altri a seguirlo: al giro cruciale della Nota di aggiornamento al Def, il primo vero atto di politica economica del governo gialloverde, Luigi Di Maio ha scommesso tutte le sue chips per innalzare l’asticella del deficit-Pil al 2,4 per cento. Un “all in” riuscito che ora si sposta al tavolo con l’Europa, guanto di sfida lanciato a Bruxelles a otto mesi dalle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento su cui soffiano fortissimi i venti sovranisti.
L’esultanza dal balcone di Palazzo Chigi, con i suoi parlamentari radunati in piazza, è la soddisfazione del giocatore per la mossa, di fatto imposta sia al riluttantissimo Giovanni Tria sia all’alleato Matteo Salvini, che dietro la spinta del sottosegretario Giorgetti avrebbe anche accettato di restare al 2 per cento. Ma Di Maio sembra aver seguito il consiglio di Amarillo Slim: «Nel dubbio meglio andare all in». Davanti al pericolo di perdere la faccia con gli elettori rinunciando al reddito di cittadinanza meglio alzare la posta con quelli che da settimane bolla come «tecnocrati lontani dal popolo», dentro e fuori dall’Italia.
Gli esiti della partita sono imprevedibili, pure se le parole di stamane del commissario Pierre Moscovici («Non abbiamo interesse a una crisi tra Ue e Italia, ma neanche interesse a che l’Italia non riduca il suo debito esplosivo») lasciano spazio al dialogo. A livello di politica interna, però, è Di Maio stavolta a prendersi la sua rivincita dopo mesi in cui è rimasto schiacciato nel cono d’ombra di Salvini ed è stato obbligato a inseguirlo su terreni scivolosi per i pentastellati duri e puri, a cominciare dall’immigrazione. Il numero uno del Carroccio ha ricambiato la cortesia, scegliendo di avventurarsi in territori incogniti. Indispensabile per i due vicepremier il sostegno del ministro degli Affari europei Paolo Savona, finito nella bufera proprio per il “piano B” di uscita dall’euro e per aver più volte evocato la necessità di tutelarsi in caso di «cigno nero».
Resta il dato incontrovertibile che forse per la prima volta Di Maio ha fatto valere il ruolo del Movimento come azionista di maggioranza della compagine governativa. Non avrebbe potuto farlo senza l’avallo del premier Giuseppe Conte, che deve proprio al vicepremier la sua nomina e a cui toccherà insieme a Tria il confronto con i commissari per scongiurare la procedura d’infrazione per deficit eccessivo.
I mercati, a giudicare dall’apertura di Piazza Affari di stamattina e dallo spread subito schizzato intorno ai 260 punti base, non sembrano apprezzare l’audacia dei “giovani leoni” italiani. A fine ottobre arriverà il giudizio delle agenzie di rating. Al di là della domanda (legittima) se si stia cercando l’incidente con l’Europa, resta aperta l'altra: chi vincerà alla fine? sarà il popolo a pagare il conto della “manovra del popolo”?
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