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Pensioni quota 100, ogni sconto ha sempre un costo

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IL CANTIERE DELLA PREVIDENZA

Pensioni quota 100, ogni sconto ha sempre un costo

Il 1995 è stato un anno record per l’Italia. L’età media di pensionamento è stata la più bassa nella storia del nostro paese: 59 anni. I lavoratori italiani andavano in pensione quattro anni prima che negli altri paesi Ocse. Da allora, l’età di pensionamento è progressivamente aumentata ovunque, ad eccezione della Grecia. Nel 2017, in Italia gli uomini hanno smesso di lavorare a 62 anni e mezzo – ben più tardi di vent’anni fa, ma comunque tre anni prima che negli altri paesi Ocse. In Italia, la riforma Fornero ha suscitato forte emotività, ma aumentare l’età di pensionamento è una politica che tanti Paesi hanno intrapreso da tempo, spinti dalla necessità di rimodulare il sistema pensionistico all’incremento della speranza di vita. L’Italia è, fortunatamente, una delle nazioni in cui la longevità è aumentata di più, ma ciò ha richiesto anche maggiori sforzi di riforma.

Certo, questa politica non genera entusiasmo, né voti alle elezioni. Molte imprese sono poco interessate a lavoratori ultrasessantenni spesso poco motivati o produttivi, ma titolari di stipendi generosi, e preferirebbero indurli al (pre) pensionamento, evitandosi così di (provare a) licenziarli. Disoccupati e lavoratori con problemi di salute, diventati ormai anziani, aspirano solo alla pensione. E anche altri lavoratori, per motivi familiari o semplicemente perché stanchi e demotivati, preferirebbero smettere di lavorare. L’incremento dell’età di pensionamento ha creato quindi una forte – e legittima – domanda di flessibilità.

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Ma tutto ha un prezzo e anche la flessibilità costa. Il prezzo della flessibilità si comprende più facilmente se consideriamo il sistema contributivo, in cui la pensione erogata dipende dai contributi versati durante la vita lavorativa. Nel contributivo, la longevità residua, ovvero il numero di anni durante i quali ci si aspetta di ricevere la pensione, determina come il totale dei contributi versati si trasforma nella pensione mensile.

Poiché andare in pensione un anno prima vuol dire ridurre il totale dei contributi versati ed aumentare il numero di anni in pensione, la pensione mensile deve necessariamente diminuire. Ed infatti il sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini nel 1995 prevedeva flessibilità in uscita, ma a pagamento, ovvero con una penalizzazione attuariale che tenesse conto di questi effetti.

Le riforme che si sono succedute dopo la Dini hanno aumentato l’età di pensionamento, soprattutto per i lavoratori coperti dal sistema retributivo o misto, lasciando però pochi margini di flessibilità.

Qualche strumento di flessibilità in uscita è stato introdotto di recente. Oggi le imprese possono convincere i lavoratori a lasciare il mercato del lavoro usando l’isopensione, i fondi di categoria e l’Ape aziendale, ma devono accettare di sostenere un costo economico. Per le persone con più di 63 anni in difficoltà lavorative o di salute, ma con una storia contributiva lunga, è stata introdotta nel 2017 l’Ape sociale, che prevede un trasferimento monetario mensile parametrato alla pensione futura.

Il nodo cruciale riguarda chi in pensione vuole andarci per scelta propria. L’Ape volontaria, introdotta lo scorso anno, ha creato un meccanismo di mercato che consente l’uscita anticipata dal mondo del lavoro, ma pagando un prezzo per la flessibilità.

Quota 100 promette, invece, una pensione priva di penalizzazioni attuariali ai quasi 400mila fortunati che, nei prossimi tre anni, avranno almeno 62 anni di età e 38 di contributi. Dopo si tornerà, forse, alle regole introdotte dalla riforma Fornero, ma senza Ape sociale e volontaria.

L’incertezza sul futuro e gli incentivi errati nelle scelte di pensionamento creati da quota 100 rischiano di riportare le lancette dell’orologio al 1995, quando in Europa quasi nessuno lavorava meno di noi.

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