La prudenza regna sovrana in casa Cinque Stelle. Il caso Diciotti irrompe in un momento delicatissimo, alla vigilia delle elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna e a quattro mesi dalle europee. Con i sondaggi che danno la Lega sopra il 30%, certificando il ribaltamento dei rapporti di forza nel Governo rispetto al voto del 4 marzo. Votare sì alla richiesta di processo per Matteo Salvini, inoltrata al Senato dal Tribunale dei ministri di Catania, significa restare coerenti con una prassi mai tradita finora dal M5S, ma esporsi alle «conseguenze» ipotizzate esplicitamente dagli alleati leghisti. Votare no vuol dire salvare l’alleanza, al prezzo però di concedere a Salvini la sin qui tanto odiata immunità parlamentare.
Dopo la retromarcia di Salvini e il suo appello a negare il processo i pentastellati sono in mezzo al guado e si aggrappano alla sponda offerta dal premier Giuseppe Conte: una memoria sottoscritta anche da Luigi Di Maio e dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli in cui il Governo si assume la «piena responsabilità» di quanto avvenuto ad agosto. «È stata un’azione politica, una decisione collegiale», ha ripetuto stamane Toninelli ai microfoni di Radio Anch’io, confermando che la scrittura del documento è in corso. Questa soluzione, però, presenta difficoltà tecniche (il presidente della Giunta per le immunità del Senato, Maurizio Gasparri, non la considera ricevibile se non “assorbita” in un documento di Salvini) e lascia freddi i senatori ortodossi, quelli più vicini al presidente della Camera, Roberto Fico.
Come Paola Nugnes, che ha ventilato l’addio al Movimento in caso di voto contrario del gruppo e che oggi all’Huffington Post ha ribadito il concetto: «Ho delle serie difficoltà a ritenere l’azione messa in atto ad agosto come effettuata per “salvaguardare un interesse pubblico superiore”, poiché lo sbarco e la doverosa accoglienza non mettevano, nello specifico, in nessun pericolo l’interesse pubblico». Sulla stessa lunghezza d’onda un altro fedelissimo di Fico, Luigi Gallo, presidente della commissione Cultura della Camera. «Se i senatori 5 stelle votassero no - ha riaffermato in un’intervista al Quotidiano nazionale - non esisterebbe più il M5S».
L’ex deputata Roberta Lombardi, oggi consigliera regionale del Lazio, ha messo ieri in evidenza i rischi in termini di consenso: «Salvare Salvini ci costerà caro». Se il M5S voterà contro - è il suo ragionamento, e non soltanto il suo - ne uscirà perdente, abdicando ai suoi valori identitari. Apparirebbe infatti come quello che ha immolato se stesso sull’altare del Governo del Cambiamento, mentre Salvini come colui che, duro e puro fino alla fine, si è immolato sull’altare della Patria contro l’invasione scafista. E alla fine a dettare la linea, quando ormai sarà troppo tardi, saranno i nostri elettori, ai quali siamo legati con un patto di lealtà che va ben oltre la durata del contratto di Governo».
Di Maio e gli altri Cinque Stelle di governo confidano però nell’effetto tempo: la Giunta per le immunità dovrà esprimersi entro il 23 febbraio. Ci sono ancora venti giorni per lasciar decantare la contronarrazione, quella secondo cui si tratta di un caso unico rispetto alle precedenti richieste di autorizzazione a procedere, in cui non ci sono in gioco responsabilità personali, casi di corruzione o peculato. Ma, appunto, una decisione politica dell’intera compagine gialloverde. Molto dipenderà da come sarà formulato il quesito, sia in Giunta (dove al momento i voti certi a favore di Salvini sono soltanto 8 su 23: quelli di Lega, Fi e Fdi) sia, soprattutto in Aula. È là che il gruppo pentastellato potrebbe franare, anche se non in modo decisivo per le sorti del vicepremier del Carroccio. Ma il voto favorevole al processo di alcuni potrebbe comunque essere letto come un cedimento della maggioranza, a fronte di un centrodestra compatto. Su cui aleggia l’offerta di Silvio Berlusconi, che si è detto pronto a un Governo con la Lega, Fratelli D’Italia e fuoriusciti dal M5S anche senza passare per le urne.
Tocca a Conte, ancora una volta, provare a sminare il terreno per aiutare i pentastellati ad abbandonare il rigido paletto identitario di un tempo in nome della realpolitik. D’altronde è già successo con il Tap e con l’Ilva. Rischia di succedere di nuovo con la Tav, dove il no dei Cinque Stelle si scontra con le richieste del mondo produttivo del Nord che invoca lo sblocco dei cantieri per la crescita. Ma saranno soltanto gli appuntamenti elettorali a “misurare” davvero il costo dell’esperienza di governo per i Cinque Stelle. Già in Abruzzo, il 10 febbraio, si potrà trarre qualche deduzione: alle politiche il M5S aveva trionfato con il 40 per cento. Se vincesse il centrodestra la war room pentastellata potrebbe rivedere tutte le mosse.
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