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Il Pd di Zingaretti e la coalizione che (ancora) non c’è

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L'Analisi |LA PRIMA DIREZIONE

Il Pd di Zingaretti e la coalizione che (ancora) non c’è

Non è un caso che la prima direzione del Pd dell’era Zingaretti sia incentrata sul tema delle alleanze. In fondo è il punto da cui si è partiti dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016, quando è sfumata la prospettiva di un moderno sistema maggioritario e si è imposta una soluzione prevalentemente proporzionale con il Rosatellum.

Già prima delle elezioni politiche dello scorso anno il Pd a guida ancora renziana aveva provato a mettere su una coalizione di centrosinistra “allargata”: nei collegi uninominali erano tre le liste collegate al Pd, dai Radicali di Più Europa alla lista centrista capeggiata da Beatrice Lorenzin fino alla lista democratico-socialista “Insieme” sponsorizzata da Romano Prodi. La prima non ha superato il 3% ma ha comunque dato il suo apporto alla coalizione, le altre due non hanno superato l’1% disperdendo i voti.
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L’interlocuzione a sinistra era stata affidata all’ultimo segretario dei Ds, Piero Fassino, che tuttavia fallì nel tentativo di coinvolgere la formazione di Giuliano Pisapia. A sinistra del Pd è rimasta alla fine Leu, che unendo i fuoriusciti bersaniani di Articolo 1-Mdp e i vendoliani di Sel ha superato di poco il 3% riuscendo a portare in Parlamento una pattuglia di rappresentanti (14 deputati e 4 senatori). Il fallimento del dialogo a sinistra è stato addebitato tutto all’ex leader Matteo Renzi, con qualche ragione, ma a distanza di un anno il quadro delle possibili alleanze per il Pd non è più roseo.

Con i sondaggi che danno i democratici poco sopra il 20%, in risalita rispetto al 18% delle politiche ma certo non più maggioritari, la necessità di ricostruire una coalizione di stampo classico - sul modello dell’Ulivo degli anni ’90 o dell’Unione dei primi anni Duemila - è tornata ad imporsi nel dibattito interno. Tuttavia lo stesso ex premier Paolo Gentiloni, fautore delle necessità di riaggiornare la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria aprendosi a possibili alleanze, ha ammesso in più di un’occasione pubblica che gli alleati del Pd ancora non ci sono: vanno trovati nella società civile, nei movimenti spontanei di “resistenza” al salvinismo. Vanno insomma ancora “costruiti”.

Dopo la prova di esistenza in vita del centrosinistra tramite il “gioco” delle liste civiche alle ultime tre regionali in Abruzzo Sardegna e Basilicata, vinte in ogni caso tutte dal centrodestra a trazione leghista, il neo segretario Nicola Zingaretti si trova ora a rilanciare il tema delle alleanze. In primis per le europee e le amministrative del prossimo 26 maggio (si vota in quasi 4mila Comuni e in Piemonte). Ma in prospettiva anche per le politiche, quando Salvini deciderà di staccare la spina al governo Conte.

La situazione, a distanza di un anno dalle politiche e dopo vari mesi dalle dimissioni di Renzi dalla segreteria dem, non è però migliorata di molto. La proposta di Carlo Calenda di dar vita a un’unica lista progressista ed europeista contro i sovranisti nostrani, portata avanti da Zingaretti nei suoi colloqui delle ultime settimane, non ha avuto molta fortuna se si eccettua la ormai certa candidatura come capolista dello stesso Calenda e l’inserimento del logo “Siamo europei” nel simbolo del Pd. Il partito possibile alleato più forte sulla carta, ossia Più Europa, ha declinato l’invito - complice il sistema proporzionale puro - preferendo correre da solo pur rischiando di non superare la soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale per le europee. Anche i Verdi sono determinati a correre da soli puntando sulla forza degli ambientalisti a livello europeo. E la formazione del sindaco di Parma Federico Pizzarotti “Italia in comune” ha deciso proprio in queste ore di unirsi a Più Europa.

Il mandato a proseguire la trattativa ottenuto da Zingaretti in direzione si riduce dunque, per ora e salvo sorprese, al dialogo con Articolo 1-Mdp. Il leader Roberto Speranza, che sta parallelamente trattando con i residui socialisti per una lista autonoma all’insegna del Partito socialista europeo, auspica che si riesca a unire le forze in modo da non disperdere i voti del campo socialista così come chiesto per altro dal candidato comune Frans Timmermans. Dal punto di vista di Zingaretti, che ha come obiettivo immediato quello del sorpasso sul M5s alle europee, anche un 1% in più può essere utile. Si va dunque verso la candidatura di alcune personalità di Articolo 1-Mdp in cambio della rinuncia a correre con una lista autonoma. In assenza di accordo con Più Europa, limitarsi ad Articolo 1-Mdp rischia tuttavia di spostare troppo a sinistra l’asse. Provocando per altro la reazione dei renziani della mozione Giachetti, giù sul piede di guerra.

Come si vede il panorama delle alleanze continua ad essere fosco. E i rimandi di alcuni dirigenti alle vecchie coalizioni di centrosinistra a guida prodiana sembrano non tenere conto del fatto che allora c’erano i Ds e c’era un partito centrista come il Ppe (poi Margherita). Ora i centristi non ci sono più, e a destra del Pd c’è solo Più Europa che mantiene una sua autonomia identitaria. Di contro la sinistra radicale si è progressivamente ridotta, non superando dal 2008 in poi il 4% in nessuna competizione di livello nazionale.

E qui si torna al tema della vocazione maggioritaria che la nuova dirigenza del Pd intende abbandonare a partire dalla separazione del ruolo di segretario del partito e di candidato premier. Certo, si può anche superare l’automatismo della coincidenza dei due ruoli previsto dallo statuto del Pd. D’altra parte lo stesso statuto prevede la possibilità di primarie di coalizione. Ma prima bisogna avercela, una coalizione.

Il dibattito sulla vocazione maggioritaria, ci sembra, sta perdendo di vista il nodo principale perdendosi come spesso accade nel Pd in discussioni formali. In assenza di un vero centro nel panorama politico e di fronte a un centrodestra profondamente diverso da quello berlusconiano che abbiano conosciuto, sovranista e per certi versi di estrema destra, il Pd non può rinunciare alla vera vocazione maggioritaria che significa tornare a parlare a tutto il Paese. Anche a chi ha scelto la destra chiedendo minori tasse e maggiore sicurezza e protezione dagli effetti della globalizzazione.

Più che cambi di statuto o ricerca forzata di alleanze con piccole formazioni, quello che manca ancora in casa democratica è una proposta politica per il Paese. Senza la quale il Pd potrà pure conquistare l’agognato secondo posto, approfittando dell’evidente crisi del M5s, ma non potrà aspirare a costruire una vera alternativa di governo al centrodestra salviniano vincente.

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