Non c’è tema come le Province che ecciti l’ingegneria costituzionale italiana. Protagoniste assolute nella politica degli ultimi anni, che alla riforma di questi enti ha spesso voluto legare le sorti della nostra finanza pubblica, le Province sono in realtà da decenni al centro del dibattito: troppa grazia, e soprattutto pochi risultati.
A renderle forti, nell’Italia dei campanili, è la loro lunga storia, che precede i Mille e l’unificazione del Paese. Le Province sono una delle tante eredità che l’Italia riceve dal modello burocratico francese in voga nel Regno di Sardegna. Il loro padre è Urbano Rattazzi, che ne fissò l’ordinamento nel 1859 dopo che Torino conquistò la Lombardia.
Competenze indefinite
A renderle invece deboli, nell’Italia della Repubblica dai conti pubblici sempre febbricitanti, è il loro ruolo di vaso di
coccio fra due vasi di ferro come i Comuni e le Regioni. Che cosa fa la Provincia? Il pacchetto delle loro competenze è sempre
stato troppo indefinito per farle apprezzare dai cittadini. Le Province gestiscono 132mila chilometri di strade; ma sono strade
spesso “minori”, che fanno notizia solo quando diventano inservibili a causa della manutenzione azzerata dai tagli. Si occupano
degli edifici scolastici; ma solo negli istituti superiori perché la bizzarra legislazione italiana ha affidato invece elementari
e medie ai Comuni. Con il risultato di dare un colore politico anche alla neve: perché è capitato più volte che sindaci di
centro-sinistra abbiano tenuto aperte le elementari in polemica con presidenti di Provincia di centro-destra che le chiudevano
per neve. O viceversa.
LO SCOOP DEL SOLE / Il progetto che fa «risorgere» le Province
Il primo attacco nel 2012
Fatto sta che finora i tanti tentativi di riforma sono stati generosi nell’impegno politico quanto avari nei risultati. Dopo
un tira e molla infinito durante l’ultimo governo Berlusconi, l’attacco finale (si fa per dire) alle Province parte nel 2012.
Lo spread rimane ai massimi, e per continuare il lavoro del «salva-Italia» arriva il decreto spending review. L’obiettivo
è di tagliare 35 Province tramite accorpamenti, che vengono illustrati in conferenza stampa dall’allora ministro della Funzione
pubblica Patroni Griffi. Con l’occhio alla cartina, qualcuno ironizza sulla fattibilità di un progetto che fra le altre mosse
prova ad accorpare Pisa e Livorno. La storia dei mesi successivi, coronata dal successo del ricorso in Corte costituzionale
da parte delle Regioni, darà ragione agli scettici.
Il governo Letta si limita ad annunciare a più riprese un disegno di legge per l’abolizione delle Province; abolizione che arriva invece per decreto. Ma a Palazzo Chigi c’è già Matteo Renzi, e a legare il proprio nome alla riforma è il ministro degli Affari regionali Graziano Delrio.
L’abolizione delle Province elettive
Nascono lì le attuali Province «di secondo livello», gestite dalle assemblee elette dagli amministratori locali del territorio,
e le Città metropolitane, che sostituiscono le Province in 14 capoluoghi. Ma la riforma avrà vita complicata. Resiste ai ricorsi
regionali alla Consulta, al contrario del tentativo 2012, ma vede presto sfumare i propri obiettivi di risparmio da tre miliardi
in tre anni. Troppo ambiziosi: perché le indennità e gli assessori scompaiono, ma le strade e le scuole no.
Il fallimento del referendum
Il colpo di grazia alla riforma arriva però il 4 dicembre 2016, con il referendum che travolge il governo Renzi. La «Delrio»
era stata pensata come ponte verso l’uscita delle Province dal testo della Costituzione. Ma i «no» vincono, e la Repubblica
continua a essere «costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» (articolo
114). Anche se nel frattempo tagli e mobilità ne hanno alleggerito i bilanci e desertificato gli organici.
Il nodo delle Città metropolitane
Riparte da lì il nuovo giro di giostra della riforma, che finora ha visto Lega e Cinque Stelle andare avanti con un’intesa
che ora viene a una doppia prova: il caos nella maggioranza, che può rimettere in discussione anche accordi già costruiti come mostra il «salva-Roma», e le obiezioni dei sindaci, che oggi guidano le “nuove” Province e storcono il naso su un ritorno al passato condito da
un rischio di indebolimento delle Città metropolitane. Un’altra eterna incompiuta, quella delle Città: istituite per legge
nel 1990, pensate per creare un’amministrazione in grado di tenere il passo con la competizione globale che si svolge nei
grandi centri, e travolte da un equilibrismo politico che ha trasformato in «metropoli» anche piccole città, e ha introdotto
nel territorio «metropolitano» anche le vette alpine a Torino e le risaie del basso milanese. Ma questa è un’altra storia,
parallela a quella eterna delle Province.
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