Peggio delle peggiori previsioni: per il M5S la notte tra il 26 e il 27 maggio si è rivelata un incubo. Un tonfo al 17% alle europee, quasi sei milioni di voti dilapidati in dodici mesi di Governo, mentre la Lega doppia il risultato delle politiche del 4 marzo 2018. E mentre il Pd compie il sorpasso, scalzando il Movimento anche dalla seconda posizione. Neanche il più pessimista dei Cinque Stelle immaginava una simile débâcle. Complici i sondaggi, che fino all’ultimo li accreditavano sopra il 20% dei consensi, sopravvalutandone la tenuta.
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La portata del disastro è direttamente proporzionale al silenzio del gruppo dirigente e alla temerarietà delle reazioni successive, come quel «Per noi non cambia niente», pronunciato da Luigi Di Maio nella conferenza stampa convocata alle 14 al ministero dello Sviluppo economico. Fino ad allora Di Maio si era limitato a inviare un messaggio di complimenti all’alleato-rivale Matteo Salvini e a far trapelare la sua esortazione ai suoi: «Testa bassa e lavorare». Ma le analisi post-voto, a taccuini chiusi, sono impietose. Riassumibili nella frase pronunciata da un big molto vicino al leader: «Siamo vittime di noi stessi. Adesso Salvini vorrà portarci a rompere, facendo ricadere su di noi la responsabilità».
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In realtà le avvisaglie del tracollo c’erano tutte. I test delle amministrative in Abruzzo, Sardegna e Basilicata fotografavano con chiarezza l’indebolimento del M5S al Sud, tradizionale roccaforte in cui resta sì il primo partito, ma al 29,3%. Lontanissimo dalle percentuali record delle politiche, dove in alcune aree si era sfiorato il 50 per cento. Neanche il decollo del reddito di cittadinanza, storico cavallo di battaglia, è riuscito a frenare l’emorragia di voti. Dispersi tra la Lega, il ritorno al Pd (in minima parte, ma i flussi chiariranno meglio) e l’astensionismo. «La nostra gente non è andata a votare», sostiene Di Maio. «Ma ora attende risposte: ci sono promesse da mantenere». Come non si sa, visto che Salvini ha già dettato la sua agenda: autonomia differenziata, Tav, flat tax. Tutte proposte finora indigeste per i pentastellati.
Il Movimento ha pagato a caro prezzo il suo dichiararsi post-ideologico, «né di destra né di sinistra». Salito sul carro del Governo con una forza identitaria come il Carroccio, ne è rimasto schiacciato. In maniera evidente durante i primi nove mesi a Palazzo Chigi - quando ha dovuto far digerire ai propri elettori il sì all’Ilva e al gasdotto Tap in Puglia, il decreto sicurezza, il salvataggio di Salvini sul caso Diciotti - e in maniera sotterranea più tardi, quando è stata adottata la strategia comunicativa dei distinguo aggressivi dalla Lega, recitando la parte dell’opposizione all’interno della maggioranza. Con una tardiva virata a sinistra, risultata poco credibile. Una linea ondivaga dal 4 marzo in poi, sempre in bilico tra moderazione ed estremismo, tra la voglia di accreditarsi presso i poteri che contano, dal Vaticano alle lobby, e i tentativi di recupero dell’anima movimentista delle origini, partiti con i festeggiamenti sul balcone per il 2,4% di deficit-Pil (poi sconfessato) e culminati con l’abbraccio suicida ai gilet gialli, prontamente ripudiato.
Il gioco del Movimento di piazza e di Governo, che aveva fatto la fortuna dei Cinque Stelle negli ultimi anni, si è trasformato in un boomerang. Suscitando diffidenza sia tra gli elettori moderati, delusi dalle prove di amministrazione nelle città (è indicativo che nella Roma di Virginia Raggi e nella Torino di Chiara Appendino il M5S sia risultato terzo, dopo Pd e Lega) e dai tanti “no”, sia tra quelli storici. Lo spiazzamento è inevitabile. Così come le riflessioni sulla leadership di Di Maio, sulle performance dei suoi ministri e sul “peso” effettivo del gruppo parlamentare. Mai così folto (330 tra deputati e senatori) eppure mai veramente percepito come capace di imporsi sui desiderata della Lega.
Un’autocritica severa è arrivata dal sottosegretario agli Affari regionali, Stefano Buffagni: «L’esperienza ha poco da insegnare se non viene vissuta con umiltà. Perché si impara dal fallimento, non dal successo. Dagli errori si impara, si corregge, si riparte senza paura, con umiltà e voglia di fare le cose per il bene del Paese». Poi il messaggio ai suoi colleghi di partito: «L’ascolto, la forza di cambiare, di allargare, di far partecipare e di saper davvero premiare la competenza e la meritocrazia sono aspetti fondamentali che non si possono mettere in secondo piano».
Non ha aiutato Di Maio il doppio ministero - Lavoro e Sviluppo - che ha voluto caricarsi sulle spalle nel Governo gialloverde. Un impegno gravosissimo, ancora di più in tempi di faticosa e lenta ripresa. Niente a che vedere con il Viminale di Salvini, da cui il leader della Lega ha potuto battere sul tasto a lui più congeniale a colpi di slogan («Chiudiamo i porti») e circolari. Eppure il capo politico del Movimento resta blindato: «Oggi ho sentito tutti coloro che rappresentano le anime del M5S: Grillo, Casaleggio, Di Battista e Fico. Nessuno ha chiesto le mie dimissioni». E ancora: «Il contratto di governo non si cambia e lo tuteleremo: saremo argine».
Ma finora gli unici argini che si sono rotti sono proprio quelli del Movimento, a tutto vantaggio della Lega. E mentre Salvini ha in Fdi un’alternativa in caso di ritorno al voto, i Cinque Stelle non ne hanno. Rischierebbero di essere spazzati via con la stessa velocità con cui sono approdati al Governo del Paese. «Il M5S è biodegradabile», aveva detto Grillo alla vigilia delle politiche. Ma alludeva alla diversità dagli altri, dal «panorama politico in cui si accumula una quantità di rumenta non riciclabile che inquina, snaturandolo, il percorso naturale delle idee». Non pensava certo di aver fondato una meteora. La sfida di oggi è evitare lo spegnimento delle “5 stelle”. Condannate all’irrilevanza in Europa (gli alleati indicati finora per la formazione del nuovo gruppo hanno conquistato appena un seggio) e alle prese con uno spettro: diventare la stampella di Salvini. Sostituibile a suo piacimento, come tutte le stampelle.
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