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Giuseppe Conte, un prof nella tormenta

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L'Analisi|governo

Giuseppe Conte, un prof nella tormenta

Giuseppe Conte, beato lui, era un uomo felice d'esistere. E non possiamo dargli torto. Approdato a Roma dal borgo natio, ben presto si fa onore. Un corso regolare di studi, e non è da tutti di questi tempi. Una laurea in giurisprudenza ottenuta con pieno merito. E pressoché in contemporanea si procura due occupazioni che avrebbe svolto perfino gratis et amore dei perché entrambe gli piacciono da morire, e che invece sono retribuite più o meno profumatamente. Si fa un nome come avvocato civilista. E all'Università di Firenze, mica a Canicattì, è professore ordinario di diritto civile.
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Come sanno coloro che non sono nati nella città del giglio, a Firenze non si vive. No, come replicò quel cittadino francese uscito indenne dalla Grande Révolution, si sopravvive. Ciò nondimeno, Conte è persona di un tale garbo che si fa benvolere dagli studenti ed è stimato dai colleghi. A cominciare dalla vulcanica direttrice del Dipartimento di Scienze giuridiche, Patrizia Giunti.

In un mondo di sciamannati, si distingue per eleganza e bon ton. Ha vestiti di ottima fattura sartoriale. Dal taschino della giacca spunta una pochette civettuola. E sa fare alle signore, meglio se investite di una carica pubblica in Italia e all'estero, un baciamano come Dio comanda.
Non gli mancava nulla. Eppure, si è complicato la vita. Tentata dal perfido Egidio, alla fine la sventurata monaca di Monza rispose. Ecco, il perfido Egidio è stato impersonato da Alfonso Bonafede. Dopo essersi mantenuto agli studi con i lavori più disparati, era stato ben lieto di fare l'assistente volontario, cioè senza beccare una lira, a un professore rinomato come Conte. Lo presenta ai maggiorenti pentastellati che, non potendo insediare a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, pensano proprio a lui. Come la monaca manzoniana, anche lui rispose. Di sì, si capisce. Ma dopo una mazziniana tempesta del dubbio. E già perché Conte in un primo momento pensa a Peppone Stalin. Quante divisioni ha il Papa? Lui, Conte, ne ha molto meno del Santo Padre. Non ha nulla di nulla. Il rischio è quello del re Travicello.

In effetti, per buona parte dell'anno di governo si adatta a fare l'ago della bilancia. Un arbitro che rischia di buscarle di santa ragione ora dall'uno e ora dall'altro dei contendenti. L'un contro l'altro armato. Ma poi, a poco a poco, tenta di prendere il largo. Entro i confini nazionali, a riprova che nemo propheta in patria, conta ben poco. Ma all'estero riesce a farsi un nome. Oltre all'italiano, sbertucciato a dritta e a manca anche in alto loco, maneggia inglese, francese, tedesco e altro ancora. Ha confidenza con Donald, Angela, Emmanuel, Theresa. Insomma, con i grandi della Terra. Il bello è che, per via delle nostre difficoltà economiche, sono per l'appunto Salvini e Di Maio a spingerlo in bocca ai partner europei e comunitari. Perché a loro veniva da piangere.

Ma tutto è stato inutile. I consoli continuano a darsele di santa ragione. E, come sosteneva Totò, anche il limite ha la sua pazienza. Non potendo contare sul diritto della forza per assoluta mancanza di divisioni, nella conferenza stampa di lunedì Conte si è appellato – da buon giurista – alla forza del diritto. E precisamente all'articolo 95 della Costituzione. Che recita: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Chissà se Conte avrà pensato a un suo illustre predecessore. A Giovanni Spadolini. Facendo leva sull'articolo 95 riuscì a formare due governi e a stilare un decalogo istituzionale della massima importanza. Perché, una volta tradotto in norme giuridiche, rafforzò l'inquilino di Palazzo Chigi. Difatti il voto segreto in Parlamento ormai rappresenta l'eccezione alla regola del voto palese, con la conseguente scomparsa dei franchi tiratori. E la legge sull'ordinamento della presidenza del Consiglio ha dato smalto a chi era considerato un mero primus inter pares rispetto ai ministri.
Chissà come finirà. Ma se tutto dovesse andare a rotoli, Conte uscirà dalla scena a testa alta. Con dignità. Meglio tirare le cuoia che andreottianamente tirare a campare. Però mai dire mai. L'araba fenice docet.

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