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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2012 alle ore 15:52.
Il 2012 sarà l'anno dei nanofarmaci? Tra Stati Uniti ed Europa i farmaci e le sostanze usate in diagnostica in versione nano approvati sono già una quarantina, e si può dire che non passi settimana senza che ne vengano sperimentati e proposti di nuovi. La miniaturizzazione del principio attivo o del marcatore, infatti, cambia radicalmente le caratteristiche chimico-fisiche e conferisce alle sostanze proprietà spesso nuove, potenzialmente desiderabili, quali l'impiego di dosi molto più basse di principi attivi. Ma tali cambiamenti sono solo positivi? Per tentare di fornire una risposta e ridimensionare un campo che è spesso oggetto di entuasiasmi e allarmismi infondati, Ruth Duncan e Rogerio Gaspar, ricercatori del Research institute for medicines and pharmaceutical sciences di Lisbona, hanno appena pubblicato su «Molecular Pharmaceutics» una imponente revisione di oltre 500 studi che parte dalle prime ricerche (tracciando così anche una storia della nanomedicina) e arriva fino alle scoperte più recenti.
In sintesi, il quadro che emerge è quello di una sorta di distorsione costante, perché i dati a disposizione non consentono né di abbandonarsi a incondizionate approvazioni né di temere effetti negativi non dimostrati. C'è insomma ancora da approfondire, e molto. Un passo importante in questa direzione è quello compiuto dai ricercatori del Norwegian Radium Hospital, che dopo quattro anni di test con speciali sonde fluorescenti e magnetiche sono giunti a una conclusione non troppo rassicurante, quanto al destino delle nanoparticelle nell'organismo: poiché non tutte vengono eliminate, i rischi legati all'assunzione cronica di nanofarmaci potrebbero essere non trascurabili. Come riferito su «Nano Letters», infatti, le nanoparticelle del diametro compreso tra 30 e 100 nanometri (tipico di farmaci e sostanze diagnostiche) legate alle proteine usate per veicolarle all'interno delle cellule rimangono dentro le cellule stesse, tendono ad accumularvisi e a interferire con circuiti vitali (vedi figura). Di qui i timori che, soprattutto se assunte per curare malattie croniche, esse possano favorire l'insorgenza di patologie anche gravi come il cancro e, soprattutto, un pressante invito ad approfondire molto di più questo genere di effetto prima di approvare un nuovo farmaco, perché la dimensione nano può generare problemi non presenti con i farmaci tradizionali.
Al tempo stesso, però, le dimensioni sono anche l'arma vincente dei nanofarmaci: in uno studio pubblicato su «Nature Nanotechnology», i ricercatori dell'Università di Copenaghen hanno mostrato come sia possibile, giocando con i nanoreattori, ottenere farmaci in soluzioni così ridotte da essere quasi inimmaginabili: in meno di un femtolitro, cioè in volumi pari a litri dieci alla meno 19. Se tutto ciò si potesse portare su scala industriale – e gli autori ne sono convinti – i vantaggi (anche dal punto di vista della sostenibilità) sarebbero più che evidenti per l'industria farmaceutica e non solo.
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