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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2013 alle ore 06:46.
L'ultima modifica è del 12 marzo 2014 alle ore 17:43.

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ROMA - A oltre dieci anni dall'entrata dell'Italia nel progetto F35, la sigla del caccia di quinta generazione è ancora sinonimo di battaglie politiche e polemiche ideologiche. Secondo i detrattori, uscendo dal consorzio, si risparmierebbero miliardi di euro. Il generale ispettore capo Domenico Esposito, è alla guida della direzione degli Armamenti aereonautici e dell'aeronavigabilità ed è la massima autorità tecnica a occuparsi del Joint Strike Fighter per l'Italia.

«Innanzitutto bisogna ricordare che tutti i passi compiuti fino a ora, dall'entrata nel progetto nel 2002, alla decisione di costruire la linea di produzione a Cameri (Novara) nel 2009, sono stati approvati dal Parlamento – spiega –. Un altro punto da chiarire è quello dei costi: non si tratta di un prodotto finito che acquistiamo da una fabbrica estera, ma, al contrario, di un lavoro di squadra in cui giochiamo un ruolo di primo piano».

Il progetto F35, infatti, non è regolato dal criterio del cost-share/work-share come nel passato, quando, a ogni nazione che partecipava a un consorzio, era garantita una percentuale di lavoro stabilita a priori in base alla quota di contribuzione. Secondo il generale Esposito «il progetto è in continuo divenire ed è questa la sua forza». Ma come funziona? «Esistono delle verifiche periodiche per ogni singolo componente e, in pratica, gli appalti sono sempre aperti a qualsiasi ditta del consorzio dei paesi partecipanti per mantenere uno stretto controllo su costi, qualità e tempi. Per ipotesi, nulla impedisce che un'azienda italiana si aggiudichi la produzione di un lotto di componenti che fino a ieri era di una ditta americana».

Le circa 60 aziende italiane che già partecipano al progetto, sono quindi inserite a pieno titolo nel ciclo produttivo e condividono le tecnologie e il know how con le aziende di tutte le altre nazioni. L'Alenia Aermacchi, per esempio, produrrà le ali per oltre 800 di aerei, non solo per quelli italiani. Finmeccanica partecipa al consorzio con otto aziende, ma da poche settimane sta valutando un coinvolgimento maggiore proprio grazie al meccanismo di competizione internazionale aperta e in prospettiva della lunga fase di supporto logistico.

Nello stabilimento novarese di Cameri, inoltre, sarà gestita la manutenzione dei Jsf europei, oltre a quelli italiani e a quelli americani in servizio in tutta l'area mediterranea, circa 600 apparecchi, con una ricaduta occupazionale stimata in 6mila unità a pieno regime fino a oltre il 2040. Molte ditte italiane hanno dovuto sostenere investimenti onerosi e non sarebbero in grado di sopravvivere a ulteriori tagli rispetto ai 90 velivoli attualmente prenotati. Secondo il generale Esposito «sarebbe un'occasione persa e un colpo durissimo per un intero settore industriale italiano». Quanto si risparmierebbe abbandonando il progetto F35? «Nulla – risponde –. Il Jsf andrà a sostituire il Tornado e l'AM-X dell'Aeronautica e l'AV-8 Harrier della Marina. Aerei concepiti negli anni '70 e ormai giunti alla fine della loro vita operativa poiché superati e non più sicuri. Mantenerli in servizio per forza, con i pezzi di ricambio fuori produzione, costerebbe molto più che acquistare gli F35. E soprattutto, centinaia di lavoratori delle aziende italiane che partecipano al consorzio resterebbero senza lavoro».

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