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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2013 alle ore 06:43.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 11:06.

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Nel mandamento palermitano di Corleone gli affiliati a Cosa nostra non sarebbero più di 80. In quello trapanese di Castelvetrano, più o meno gli stessi. Stremato com'è da arresti a raffica, l'esercito di Cosa nostra si assottiglia e – come spiega l'ultima relazione della Dia al Parlamento – è «sempre meno conforme ai rigidi schemi dei mandamenti e delle famiglie».

Ecco, dunque, che non può essere il numero degli affiliati nelle roccaforti di Totò Riina e di Matteo Messina Denaro la chiave di lettura delle minacce di morte che Riina da Opera (Milano), dove è (teoricamente) recluso in regime di carcere duro, lancia in primis a Di Matteo, impegnato nei processi sulla (presunta) trattativa tra Stato e Cosa nostra. Minacce che fioccano, senza soluzione di continuità, anche sulla testa dei suoi colleghi delle procure di Palermo e Caltanissetta, Francesco Messineo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia, Roberto Scarpinato, Sergio Lari e Domenico Gozzo.

Questo annuncio di morte suona complesso e tragico perché lo Stato non può permettersi di perdere Di Matteo e i suoi colleghi. Di Matteo, Teresi e il pool, stanno ormai indagando da anni sulla (presunta) trattativa tra Stato e Cosa nostra che vede imputata quella parte dello Stato che per l'accusa avrebbe patteggiato con l'ala antistragista, tradizionalmente legata a Bernardo Provenzano. In questo percorso Riina sarebbe, per paradosso, parte offesa perché la salvaguardia e le garanzie eventualmente prestate da pezzi infedeli dello Stato ai “moderati” di Binnu u tratturi avrebbero messo all'angolo, come un pugile ferito, lui e i corleonesi.

Non bisogna però dimenticare che Riina non è mai stato rimpiazzato al vertice della commissione provinciale, la cabina di regia che per una lunga stagione è stata la vera forza di Cosa nostra. Dal 2008 a oggi ci sono stati almeno due tentativi – andati a vuoto – di ricostituire la cupola che, formalmente, non si riunirebbe dal 1993, quando venne arrestato.

Riina, dunque, rimarrebbe il capo. Umiliato. Forse (s)venduto dalla “sbirritudine” di Provenzano – come si intravede nella ricostruzione del processo Mori-Obinu che ha visto in primo grado assolti i due ex vertici dei Ros dei Carabinieri – ma pur sempre un capo che troverebbe in Messina Denaro un alleato sul quale appoggiare la rinnovata strategia stragista. Per la Dia la leadership a Trapani di Messina Denaro è «incontrastata e indiscussa» ma c'è da chiedersi a quale scopo Messina Denaro (che non avrebbe alcuna intenzione di diventare il “capo dei capi”) dovrebbe perorare una linea stragista. Forse solo per vendetta visto che il suo esercito è al lumicino, lui è braccato e il suo immenso patrimonio pressoché azzerato.

Cercare la risposta della rinnovata strategia stragista sull'asse Palermo-Trapani è allora condizione necessaria ma non sufficiente perché lo stesso Riina sa che, anche nei suoi confronti, lo Stato non ha mancato di “peccare”, come nel caso della mancata perquisizione del covo abbandonato.
Ed ecco allora che le chiavi di lettura per il rischio mortale che, in primis, incombono su Di Matteo, vanno cercate fuori dalla Sicilia. A Roma, in quelle stanze dei poteri marci ai quali il pool palermitano sta dando la caccia come aveva fatto, prima di lui, Paolo Borsellino. In quelle stanze romane – crocevia di ogni decisione – sanno benissimo che, in primis, il pool palermitano non sta portando avanti i soli processi Mori-Obinu (ricorso in appello) e Stato-mafia ma anche una terza e riservatissima indagine (nella quale entrano anche le Procure di Reggio Calabria, Caltanissetta e Catania) destinata a riscrivere completamente le fasi della trattativa tra Stato e mafie (‘ndrangheta compresa) riportando indietro le lancette del tempo, ben prima del '92.

Ed allora il grido di morte di Riina andrebbe letto come la paura per la scoperta di verità inconfessabili che riguarderebbero anche la sua appannata leadership, come ha dichiarato domenica scorsa a «1/2 Ora» di Lucia Annunziata il capo della Procura di Caltanissetta, Sergio Lari, o come la foglia di fico dietro la quale si riparerebbero i poteri marci, pronti ad attribuire – come per le stragi di Capaci e Via D'Amelio – l'ennesimo omicidio eccellente alla follia di Riina. L'una ipotesi non esclude l'altra.

r.galullo@ilsole24ore.com
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