Quando, la settimana prossima a Zagabria, autorità e banchieri dei paesi dell'Europa centrale e orientale si riuniranno per l'assemblea della Bers, la banca creata un ventennio fa per guidarli dal comunismo all'economia di mercato, potranno compiacersi di una cosa: aver evitato, finora, il contagio greco. E di essere anzi in condizioni migliori rispetto ai paesi della periferia dell'Unione monetaria europea, come Portogallo, Spagna e Irlanda. Tanto che il rischio paese degli uni, misurato dai famigerati credit default swap, si è contratto con il dilatarsi della crisi greca, mentre per gli altri si è ampliato.
Cosa è cambiato, soprattutto nei paesi guida della regione, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, rispetto agli anni scorsi, quando erano stati invece le principali vittime della crisi finanziaria globale, trascinati a fondo dagli squilibri dei conti con l'estero e dall'eccessiva dipendenza dai capitali stranieri? E perché hanno saputo rispondere al più importante mutamento macroeconomico dell'ultimo anno, cioè la ripresa globale, «più rapida e più ampia del previsto», nella definizione dell'Fmi, mentre la periferia di Eurolandia, finora considerata più protetta proprio perché dentro i confini della moneta unica, continua ad arrancare e viene sballottata dalle ripercussioni del caso Grecia?
Anzitutto, essere stati coinvolti pesantemente nella crisi globale li ha costretti ad anticipare l'aggiustamento (per l'Ungheria, in cambio di un pacchetto di aiuti Ue-Fmi, per la Polonia di una linea di credito "preventiva" del Fondo), correggendo i deficit delle partite correnti e accettando un calo dei salari nominali misurati in euro. Sfruttando il canale della svalutazione del cambio, osserva non a caso uno studio di Goldman Sachs, che evidenzia come si tratti di un'opzione che non è disposizione della Grecia, né degli altri paesi periferici di Eurolandia.
Ci sono poi condizioni finanziarie più favorevoli: e qui non si tratta solo di cambio, ma anche della ripresa dei flussi di capitali privati verso l'Europa centrale e orientale (180 miliardi di dollari nel 2010, il quadruplo dell'anno scorso) e a costi in calo.
Infine, c'è un fattore strutturale, evidenziato più volte nell'esame del caso greco, ma che risalta ancora di più nel confronto con Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia. Queste ultime sono tutte economie nettamente più aperte di Portogallo, Spagna e Grecia. E una percentuale più alta del loro export si dirige verso i grandi dell'Unione monetaria, cioè Germania, Francia e Italia. Paradossalmente, sono più integrati, nei commerci, in Eurolandia, dei suoi membri periferici. È bastato allora che si manifestasse la ripresa in Germania (non dimentichiamo che è una ripresa soprattutto manifatturiera) perché i vicini dell'Est la agganciassero, seppure a ritmi ancora lenti. Per la periferia Uem, una trasformazione in questo senso è un percorso lungo. Non c'è garanzia, neppure dopo il pacchetto Grecia, che i mercati finanziari gliene diano il tempo.

 

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