Stato e mercato, pubblico e privato, dirigismo e laissez-faire. Le parole dell'economia hanno incrociato molto spesso le contrapposizioni ideologiche. E mai come negli ultimi mesi, soprattutto guardando le macerie dell'ultima crisi economica, il dibattito sulle cause della crisi e sulle terapie per uscirne è tornato d'attualità con un'unanimità di fondo, ma con un'evidente divisione di metodo.
L'unanimità di politici ed economisti sta nel giudizio secondo cui la crisi sia stata resa possibile da una sostanziale carenza di regole a livello nazionale e sopranazionale. Ma quando si arriva a discutere nella sostanza le azioni da compiere, allora appaiono inevitabilmente le divisioni, come dimostrano le opinioni spesso contrapposte che hanno contrassegnato gli interventi per la crisi della Grecia.

È significativo che un banchiere come Alessandro Profumo abbia rilanciato (sul Sole 24 Ore del 4 maggio) in una prospettiva del tutto costruttiva il rapporto tra pubblico e privato, così come quello tra sistema economico e settore finanziario. È significativo perché si riconosce allo stato un ruolo fondamentale per far funzionare al meglio un mercato che possa diventare capace di premiare il merito, la professionalità, l'innovazione, la competenza.

E in questa prospettiva un ruolo sempre più importante può avere l'analisi e la riscoperta di quegli economisti che a metà del secolo scorso, apparentemente senza fortuna, misero le basi teoriche dell'economia sociale di mercato. Il libro Il liberalismo delle regole, un'antologia curata da Flavio Felice e Francesco Forte, s'inserisce in questa dimensione riproponendo i testi dei fondatori, come il Manifesto di "Ordo" di Franz Böhm, Walter Eucken e Hans Grossmann-Doerth. "Ordo" come abbreviazione latina dell'Ordnung tedesco che indica l'ordine e le regole necessarie insieme all'obiettivo da raggiungere attraverso la libera espressione della volontà.
E poi, oltre naturalmente a testi di Nils Goldschmidt e Wilhelm Röpke, un piccolo, ma fondamentale saggio di Luigi Einaudi in cui, proprio commentando Röpke, viene messa in rilievo la fondamentale differenza tra l'economia di concorrenza e il "capitalismo storico", responsabile delle ripetute crisi perché, scrive Einaudi, ha lasciato passare «le sopraffazione dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui: ma questa che è critica costruttiva del liberalismo storico impone soltanto un ritorno alle origini pure del sistema di concorrenza». L'economia di concorrenza non è peraltro una pianta che nasce spontanea nel terreno del mercato, ma è un insieme di regole etiche, giuridiche, istituzionali formate e provate nel corso dei secoli dalla coscienza civile. E quindi, come afferma Flavio Felice nell'introduzione, occorre «riaffermare l'esigenza di pensare l'ordine economico nel contesto dell'ordine sociale». Con al fondo quella tensione al rispetto e alla promozione di una libertà sostanziale, politica e democratica come base della libertà economica. Anche per questo una vera economia di concorrenza ha bisogno di una forte e sensibile presenza dei poteri pubblici. Con una risposta alla crisi che non può che diventare: più stato e più mercato.

 

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