Avevo sempre pensato che fosse stato Henry Kissinger a dire che all'università si faceva così tanta politica perché in palio c'era tanto poco, ma il sito di citazioni Bartlett's Familiar Quotations mi informa che si tratta di un famoso equivoco e che in realtà a pronunciare la frase fu il politologo americano Wallace Stanley Sayre. La frase attribuita a Sayre è meno incisiva, quindi forse fu lui ad avere l'idea e Kissinger a rifinirla. Chi lo sa? Di sicuro nessuno sapeva per certo chi fosse il recensore che si firmava "Historian", quando ha cominciato a stroncare i saggi di storici rivali sul sito di Amazon e a elogiare i lavori di Orlando Figes, esperto di Russia e professore di storia al Birkbeck College di Londra, anche se erano in molti a sospettare che si trattasse proprio di Figes.

La faccenda è andata avanti per parecchie puntate, con Figes che minacciava di fare causa ai suoi rivali e la moglie di Figes che sosteneva di essere l'autrice delle recensioni, ma alla fine il professore del Birkbeck College ha ammesso di essere lui il colpevole. Figes non è stato molto abile a coprire le proprie tracce. Rachel Polonsky, una delle autrici stroncate dal sedicente Historian, cliccando sul profilo online dell'anonimo recensore era arrivata dritta dritta al nickname "Orlando-birkbeck". Figes non ha nemmeno brillato per originalità. Nel 2004, una falla del software di Amazon rivelò i nomi veri dietro gli pseudonimi dei recensori, facendo vedere che erano in tanti a fare proprio quello che Figes ora ha ammesso di fare.

La Rete ha rovesciato molte convenzioni sociali consolidate, tra cui quella che considerava abbastanza vigliacco lanciare anatemi sotto la copertura dell'anonimato. Un'altra convenzione era la teoria che chiunque ha qualcosa di valido da dire. Tutti hanno il diritto di parlare, ovviamente, ma la Rete ha dimostrato che non vale la pena ascoltare tutti. E i siti che ospitano commenti e recensioni online dovrebbero ragionare meglio su questo strumento.

I quotidiani autorevoli, ad esempio, hanno da sempre una forte reticenza a pubblicare lettere anonime nelle loro edizioni cartacee, e consentono ai mittenti di rimanere anonimi solo se l'anonimato è indispensabile per la loro protezione, e anche in questi casi solo dopo aver appurato che il mittente sia chi sostiene di essere. Ma sui siti dei giornali gli pseudonimi sono consentiti e largamente usati, e lo stesso vale per i siti dove si recensiscono libri, alberghi e molto altro ancora. Le conseguenze commerciali di questi commenti possono essere nocive o molto proficue per chi viene recensito.

Alcune organizzazioni prendono delle misure per garantire che le persone che postano commenti sui loro siti siano in buona fede. TripAdvisor.com, il sito di viaggi, consente di pubblicare recensioni firmando con uno pseudonimo, ma sostiene di effettuare dei controlli a campione sul sito per controllare che i proprietari degli alberghi non cerchino di rafforzare la propria popolarità o di danneggiare la reputazione dei rivali, e per punizione segnala con avvisi rossi quelle strutture alberghiere che a suo avviso cercano di manipolare il sistema.

Il Financial Times impone di registrarsi prima di pubblicare commenti online, e tra i campi da inserire c'è il codice postale, dettagli sull'occupazione svolta e il settore di lavoro e un indirizzo e-mail. Quest'ultimo è l'unica cosa che possiamo realisticamente controllare, e qui arriviamo a una delle differenze fra la carta stampata e il web: un quotidiano ha uno spazio limitato da dedicare alle lettere, il sito di un quotidiano no. Come ha fatto notare il Guardian il mese scorso, controllare l'identità di 15-20 lettori che scrivono al quotidiano in un giorno è fattibile, ma sarebbe una colossale perdita di tempo verificare centinaia di posting online.

E allora perché non sopprimere l'anonimato? Internet è un forum aperto. La gente può fare quello che vuole nel proprio fazzoletto di Rete. Ma i siti che hanno una reputazione dovrebbero cominciare a insistere perché la gente usi il proprio nome. Potrebbero sempre usare nomi falsi, ovviamente, ma il messaggio sarebbe chiaro: se volete parlare, per cortesia diteci chi siete.
La gente può dire falsità ed essere gratuitamente offensiva anche usando il proprio nome, ma è meno probabile che lo faccia se pensa che quello che dice potrebbe essere letto da amici e colleghi. Imporre alla gente di usare il proprio nome farebbe migliorare la qualità dei dibattiti online e il livello di civiltà, a mio parere. In molti casi, usare gli pseudonimi quando si scrive su internet è diventato più un'abitudine che un'esigenza.

Ci sono persone che hanno bisogno dell'anonimato: quelli che rivelano malefatte di grandi aziende o enti pubblici, soldati in servizio a cui non viene fornito l'equipaggiamento necessario per proteggersi, persone che vivono sotto una dittatura. Ma i liberi cittadini in generale non ne hanno bisogno. Di sicuro non ci serve uno pseudonimo per dire quali libri hanno un finale deludente, quali alberghi hanno una mobilia fatiscente o quali auto fanno un rumore strano quando si sterza. Gli unici recensori che hanno bisogno di coprirsi dietro a un "alias" sono quelli con un interesse non dichiarato o con qualcosa da nascondere.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

 

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