«Il 24 gennaio 1979 era una mattina come tante. Alle sette mentre andavo a scuola passai davanti alla Fiat 850 rossa di mio padre. Non mi accorsi che era riverso, al posto di guida. Era buio e non ci feci caso. Arrivata a scuola c'era trambusto, mi rimandarono a casa spiegandomi che c'era stato un incidente. Mia madre, sulla soglia, mi disse: hanno ammazzato papà».
Sabina Rossa rievoca con sguardo asciutto, quasi duro, quei momenti. Lei aveva 16 anni, era abbastanza grande per capire perché l'assassinio di suo padre, freddato a Genova da un commando delle Brigate Rosse, avrebbe suscitato tanto scalpore. Guido Rossa era un operaio dell'Italsider, sindacalista della Cgil e iscritto al Pci. Una vittima paradossale.
«Mi rifiutai persino di entrare nella camera ardente e il giorno del funerale in piazza non scesi neanche dal furgoncino con cui era stata trasportata la bara: per me era mio padre e basta, non volevo dividerlo con nessuno». Tanto meno con le 250mila persone accorse a dare l'ultimo saluto a quell'uomo di 44 anni, ucciso perché aveva denunciato un collega che aveva portato dei volantini con la stella a cinque punte dentro l'Italsider. Quell'uomo che allo slogan "né con lo stato né con le Br" aveva risposto con un deciso, coraggioso, inequivocabile "con lo stato". I terroristi non glielo perdonarono.
«Il Pci aveva dato a mio padre un incarico preciso: controllare la situazione in fabbrica, evitare che i brigatisti trovassero terreno fertile. E lui, che pensava che il terrorismo fosse il principale nemico della classe operaia, nell'ottobre del '78 fece il suo dovere. Testimoniò al processo contro il "postino" Francesco Berardi che fu condannato a quattro anni e mezzo di carcere. Ma poi rimase solo, in un clima incandescente. Il ministero dell'Interno non mise in atto alcuna misura di protezione. Alcuni colleghi organizzarono una "scorta" volontaria, che lui rifiutò poco dopo». Erano anni in cui a Genova dominava la paura. Tra il '74 e il '79 le Br uccisero 9 persone e ne gambizzarono 18: avvocati, magistrati, politici, giornalisti, dirigenti d'azienda. Un'escalation incontrollabile.
Lo sceneggiato Il sorteggio, che andrà in onda sulla Rai in autunno, pur ambientato a Torino e con personaggi non reali, rende bene l'atmosfera di tensione di quel periodo e il disorientamento di alcune frange di lavoratori. Giorgio Faletti interpreta il ruolo di un sindacalista che ricorda proprio Guido Rossa, la sua intransigenza e la volontà di tenere la barra dritta di fronte all'incalzare dei terroristi. «Credo che le fiction per la tv e i film su questi temi siano utili, soprattutto per le nuove generazioni, per chi quei tempi non li ha vissuti», dice Sabina, sposata e madre di Eleonora, 9 anni.
L'assassinio di Rossa segnò l'inizio della fine, almeno della colonna genovese delle Br. Nell'80 in un blitz degli uomini del generale Dalla Chiesa morirono quattro brigatisti, tra i quali Riccardo Dura, che aveva sparato il colpo al cuore dell'operaio dell'Italsider. Gli altri due del commando di quel 24 gennaio erano Vincenzo Guagliardo, che sta scontando l'ergastolo, e Lorenzo Carpi, tuttora latitante.
«Dopo la reazione iniziale, di difesa, e la necessità di rimuovere quello che era successo per cercare di tornare alla normalità, ho sentito con altrettanta forza il bisogno di capire, di sapere, e così ho voluto incontrare i terroristi: li ho guardati in faccia tutti. Tutti quelli della colonna genovese», dice Sabina, gli occhi marroni che fissano senza tentennamenti l'interlocutore, i lunghi capelli biondi ad ammorbidire il volto.
«Lo dovevo a mio padre. Lui cercava il confronto e gliene era stata negata la possibilità. A Guagliardo ho chiesto tutto di quei momenti, della dinamica dei fatti, delle motivazioni. La cosa che più mi ha impressionato è stato vederlo mimare il gesto dello sparo», continua Sabina, che si è comunque esplicitamente pronunciata a favore della libertà condizionale per il terrorista, negata due anni fa dal tribunale di sorveglianza. «Dopo 30 anni di detenzione, e di fronte al riconoscimento del male che è stato fatto, credo che sia un gesto di civiltà».
Una posizione figlia dell'insegnamento di suo padre, dei valori che le ha trasmesso e che lei tiene a ricordare: «La voglia di giustizia sociale, la sensibilità verso i bisogni e i diritti dei più umili arrivavano per vie traverse nella mia vita quotidiana, nelle piccole cose. Ricordo, per esempio, il ceffone sonoro che mi beccai quando osai esultare perché non sarei andata a scuola dopo la strage di piazza Fontana. Avevo 7 anni, non mi rendevo conto. Beh, questa era l'educazione che le famiglie operaie davano ai loro figli», dice con orgoglio Sabina. Oggi ha 47 anni, si è guadagnata un posto nella scuola come insegnante di educazione fisica "dopo 13 anni di precariato". Da deputata del Pd porta avanti le sue battaglie alla Camera. Nel nome del padre

 

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