C'è un modo per restituire credito e prestigio ai nostri tribunali? Se lo è chiesto qualche giorno addietro il Capo dello stato, accogliendo al Quirinale trecento nuove leve della magistratura; ma la crisi di fiducia s'allarga ben oltre il recinto giudiziario. Tocca ormai chiunque sia investito d'un ruolo pubblico che reclami a propria volta indipendenza di giudizio, oggettività, assenza di comportamenti partigiani. Tocca gli insegnanti così come i giornalisti, oppure i funzionari dello stato. E infatti, non a caso, il rapporto Eurispes 2010 misura al 49,7% la sfiducia nella magistratura, al 54,7% quella nella scuola, al 74,9% quella verso la pubblica amministrazione nel suo insieme.

Rispetto a questo malessere diffuso potremmo domandarci se non servano leggi più esigenti, più perentorie circa i doveri di neutralità. È colpa d'una lacuna normativa se i giudici o i docenti si sentono in diritto di far comizi con una toga indosso? La cattedra non è per i demagoghi né per i profeti, diceva Max Weber; e avrebbe potuto ripeterlo per i magistrati in cattedra. Sennonché questo medesimo concetto rimbalza in lungo e in largo nei codici etici di cui sono provviste varie università italiane, si riflette nel codice deontologico della scuola cui mise mano nel 2002 una commissione insediata dal ministro Moratti, ritorna pari pari nella Carta dei doveri del giornalista siglata nel 1993.

Senza dire delle authority, cui possono accedere soltanto - in base alle varie leggi istitutive - persone di "notoria indipendenza". Quanto ai funzionari dello stato, la loro imparzialità viene raccomandata al massimo livello dell'ordinamento, attraverso l'articolo 97 della Costituzione; e riecheggia poi in un testo unico del 1957, che a sua volta enumera i doveri pubblici di chi riceve uno stipendio pubblico. Doveri di carta, dovremmo concludere in base al nostro vissuto collettivo. E d'altronde non basta mettere nero su bianco in una norma che ogni uomo dev'essere un santo, per raggiungere in massa il Paradiso.

E i giudici? Il decreto legislativo n. 109 del 2006 li vorrebbe imparziali, corretti, diligenti, laboriosi, riservati, equilibrati. Questa stessa normativa elenca 33 fattispecie d'illecito disciplinare, compreso il corteggiamento dei mass media per ottenerne un po' di pubblicità. E allora perché mai c'è una gara sempre aperta per finire sotto i riflettori? Perché ciò nonostante le sanzioni erogate dal Csm si contano sulle dita d'una mano? E perché il sospetto di parzialità politica diventa in molti casi una certezza?

In questa malattia degenerativa gioca anzitutto una componente culturale, che ha trasformato il modo con cui i giudici vivono la propria funzione, la propria stessa indipendenza. Durante l'Ottocento quest'ultima era legata all'idea di leggi certe e chiare, applicabili senza spirito di parte; oggi sappiamo tuttavia che la discrezionalità interpretativa è un momento insopprimibile di ogni decisione giudiziaria, tanto più in un ordinamento permeato da valori elastici e plurali come quelli scolpiti nella Costituzione. L'indipendenza dei giudici si è così tradotta nella salvaguardia della loro libertà ideologica, che a sua volta giustifica e sorregge il correntismo della magistratura. Ma se la premessa è esatta, la conseguenza viceversa è errata. Il fatto che il nostro ordinamento costituzionale sia aperto al pluralismo politico non significa che il pluralismo debba poi abitare anche all'interno della cittadella giudiziaria.

E c'è poi un secondo fattore, questo sì, legato a un cattivo clima normativo. Perché l'indipendenza del potere giudiziario ha in ultimo allevato l'irresponsabilità dei singoli magistrati, il rifiuto di render conto dei fatti e dei misfatti. Un solo esempio: la loro responsabilità civile viene regolata dalla legge n. 117 del 1988, che però in primo luogo presuppone l'iniziativa del cittadino (altrimenti lo stato fa spallucce) e in secondo luogo lo costringe a uno slalom di ricorsi disciplinari e giudiziari. Se vogliamo restituire al corpo giudiziario la propria autorità perduta, è di norme così che dovremmo anzitutto liberarci. E al contempo dovremmo prendere sul serio una parola che ricorre per ben 13 volte nel linguaggio della Costituzione, applicata alle situazioni più svariate: la parola "responsabilità".

michele.ainis@uniroma3.it

 

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