«Inviato da vari giornali, è stato in Cina, nelle Filippine, in Malesia; in Africa è andato al seguito del presidente della repubblica Leone, che aveva chiesto: c'è qualcuno che parla swahili? C'era mio padre. Ha sempre avuto la passione per le lingue e le grammatiche, specialmente le più impossibili». Il reporter che ha girato il mondo, dall'Europa settentrionale al Medio Oriente, dalla Spagna all'Argentina, al continente asiatico, è Giorgio Manganelli. La testimonianza è della figlia Lietta, nello spigliato Album fotografico di Giorgio Manganelli. Racconto biografico (Quodlibet, pagg. 104, € 14,00). Manganelli era attratto dall'altrove. Ma della lontananza aveva una misura emotiva e passionale. La inseguiva sugli atlanti, come sulle carte topografiche e sugli orari dei tram. Ogni luogo da raggiungere era per lui altrove, insieme intimo ed esotico. Come per il suo confratello secentesco, Daniello Bartoli, i suoi "orienti", le sue "indie" erano anche di qua: in Abruzzo e in Toscana, in Emilia e nelle Marche, in Campania e dietro l'angolo di casa. A Firenze era già oltre il confine: «L'italiano che emerge in me a Firenze è uno dei modi dell'altrove; come dire che Firenze è estero, e anzi che a Firenze scopro come l'Italia intera possa essere estero. Firenze è estero perché, qui, l'Italia è estero. È un luogo da raggiungere, un luogo lontano. È fuori». Aggiungeva: «Dovunque siamo, noi siamo "lontano"».
A meno che un viaggiatore non progetti se stesso come turista, come uno di quelli che partono per verificare quanto già sanno, e scoprire che l'Oriente è assolutamente orientale e l'Europa assolutamente europea, ogni spostamento è un incontro con l'imprevisto; e richiede preparazione adeguata ed equipaggiamento. I viaggi di Manganelli reclamavano una «preistoria di ansie». Il pavido professore milanese, occhialuto e grasso, doveva educare «le pingui chiappe e la tonda pancia» all'infamia del cibo, all'alito gelido dell'aria condizionata negli alberghi, e alla "catastrofe" dei mezzi di trasporto. L'aereo è sì una confortevole casa volante, ma può rivelarsi un guscio d'uovo claustrofobico o una metallica balena con clandestini a bordo. I tassì sono comodi, e tuttavia si lasciano talvolta classificare, nell'enciclopedia del fantastico, sotto la voce «Monumenti con vocazione alla rovina»: «Queste catastrofi di media cilindrata si spostano grazie a un ingegnoso sistema di ruote e motore, che fa pensare a un minuscolo Colosseo a vapore; o forse mi sbaglio, si tratta di un'inaudita alleanza tra un monumento suicida, pericoloso a sé e agli altri, e di un giocattolo ipertrofico. Forse nella repubblica infantile hanno trovato il modo di fare crescere le automobiline, ma, naturalmente, crescendo si sgangherano, la molla intacca la latta, i sedili si decompongono; ecco, potremmo andare oltre, potremmo descriverli come automobiline senili, che hanno raggiunto la vecchiaia senza inutili indugi nella mezza età, e che hanno l'indifesa petulanza dell'infanzia e la disfatta, preagonica aggressività del vegliardo senza saggezza; essi si spostano barcollando, ondeggiando, strascicano le ruote, vibrano come se fossero sul punto di decollare, attività che è a loro negata, e che certamente devono avere imparato in qualche favola letta alla loro culla mortuaria da un qualche nonno dei tassì». Purtroppo il corpo di un professore non ha umorismo, diceva Manganelli. A non parlare degli archivi mentali di un professore, fatti di Treccani e di «Dizionari Alfabetici della Verità».
Prima di partire, Manganelli si faceva illusionista di se stesso. Si truccava l'anima affranta con dosi di tranquillanti. E queste «blande mani chimiche» le ammassava a etti nelle valigie. Al momento opportuno gli avrebbero evitato la camicia di forza. Competente in angosce, Manganelli metteva in conto, preventivamente, tasse di malessere. E si avviava verso quel «guado dell'intelligenza» e quell'esperienza del corpo, che chiamava «pellegrinaggio della fantasia». Dentro lo spazio "simbolico" del viaggio, si ritagliava luoghi solitari e periferie sbagliate: luoghi esclusi, laterali, infettati di mostruosità; confini abitati da rovine in perenne caduta; depositi occulti di catastrofi millenarie. Era interessato alle risse geologiche e, dentro le città, alle risse geometriche o cabale urbanistiche fatte di macchinazioni simboliche. Cercava l'invisibile acquattato nel visibile; centrava i punti nevralgici di una trama numinosa tutta da decifrare in quanto produttrice di aneddoti naturali, architettonici, storici, antropologici, o semplicemente mitici. Solo Andrej Belyi l'aveva preceduto in tanta visionaria avventura.
Manganelli aveva una visione poco antropocentrica: «Nella mia esperienza personale, posso dire d'aver riconosciuto, con una sorta di felicità angosciata, una esperienza africana sconvolgente: quando tra Kenia e Tanzania scopersi non solo che il mondo visibile non è solo fatto di cattedrali e castelli, con aggiunta della Sila, ma anche della misteriosa, disumana araldica degli animali, delle piante; che esiste un mondo di immagini che si sottrae a ogni tentativo di renderlo umano». L'Africa di Manganelli è un singolare parco archeologico, un museo di mobili, viventi, e non addomesticabili "monumenti": «Gli animali popolano lo spazio africano come uno stemma che debbano rendere intelligibile. Non colossei, ma leoni, non torri ma svettanti giraffe, non acropoli ma crateri affollati di belve».
Nei suoi libri di viaggio, intenzionalmente non documentaristici, Manganelli svolgeva il mondo e lo distendeva nei fogli e nei lemmi di un vocabolario del fantastico e del fiabesco, o di una grammatica della rovina (per usare il titolo di un libro di Massimiliano Borelli: Grammatica e politica della rovina in Giorgio Manganelli, Aracne, pagg. 164, € 12,00). Decifrava tutto come dentro una pagina miniata, o in un libro di geroglifici e di emblemi: di stemmi e di tatuaggi. Una foresta diventava una biblioteca di alberi, e sugli alberi si stendeva «un sospetto di scrittura». Un paesaggio con fiume era una pagina «sfregiata da un ideogramma». Goa, in India, si concedeva alla lettura «come una figura retorica, una invenzione manierista, che per supremo capriccio ha scelto di farsi iscrivere in margine al più gigantesco ed estraneo palinsesto del mondo».
Il primo reportage di Manganelli, fulmineo ed essenziale, ha le misure di un francobollo. Ed è semplicemente una citazione letteraria, dantesca, dal canto di Brunetto Latini: «Tra Guizzante e Bruggia». Il reportage aveva un solo destinatario. Venne inviato a Luciano Anceschi, sgorbiato su una cartolina postale spedita da Bruges il 2 agosto del 1954. Ora è raccolto nel volumetto I borborigmi di un'anima. Carteggio Manganelli-Anceschi, con una postfazione di Lietta Manganelli (Aragno, pagg. 86, € 12,00). La citazione faceva riferimento alle dighe fiamminghe, che riparano dalla violenza del mare e dal "fiotto" che "s'avventa", richiamate da Dante al paragone con gli argini infernali. Sin dall'inizio, il viaggio fu per Manganelli un'esperienza infernale del l'anima e del corpo: una discesa nel luogo impervio e traumatico del sisma cosmico e morale, per risalire poi verso una scrittura portatrice di «visioni e piaghe». Il viaggio era anche un'esperienza interiore; gli accadeva dentro.
Manganelli aveva però sufficiente umorismo. Si intossicava di se stesso. Ma sapeva anche ridersi addosso. Si chiedeva: «Posso andare a spasso e lasciare me stesso all'albergo ad attendermi?». Non era una domanda paradossale. Una volta preparate le valigie per il viaggio, Manganelli si sdoppiava. Lasciava in casa un altro se stesso in pantofole, trepidante per la sorte del suo doppio scapestrato. Partiva. E da lontano mandava all'altro cartoline colorate. Gli faceva forza e lo confortava. Gli scriveva: «Tieni duro». In partenza dalle Filippine, comprò una cartolina. Scrisse sul retro il suo addio a Manila, alla città che lo teneva lontano dal suo doppio lasciato a Roma. Voleva rassicurare l'altro se stesso. Non fece in tempo a spedire il messaggio. Si mise in tasca la cartolina. La consegnò di persona. «Non si dà viaggio senza ricongiungimento a Itaca, che conferisce senso anche allo spostamento», scrive Michel Onfray (Filosofia del viaggio, Ponte alle Grazie, pagg. 116, € 12,50). Tutto stava a sopportarsi e ad accettare, nel caso di Manganelli, la compagnia di se stesso. Almeno in attesa di un successivo viaggio.
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Le immagini
Il disegno qui pubblicato fa parte delle tavole di Paolo Della Bella che sono in mostra a Roma (alla Casa delle Letterature, fino al 4 giugno prossimo). Il progetto si intitola «Cento disegni per Centuria»: l'artista ha interpretato il celebre romanzo di Manganelli con altrettanti disegni. Quello che riproduciamo corrisponde al «romanzo fiume» n. 8.
Le due cartoline (una recto e verso), invece, sono cartoline che Manganelli inviava a se stesso durante i suoi viaggi.
L'autore e i libri
Giorgio Manganelli, tra i massimi scrittori del Novecento italiano, è morto a Roma vent'anni fa, il 28 maggio del 1990. Aveva sessantotto anni. I suoi libri di viaggio sono stati quasi tutti pubblicati, postumi, da Adelphi: Esperimento con l'India, a cura di Ebe Flamini (1992); La favola pitagorica, a cura di Andrea Cortellessa (2005); L'isola pianeta e altri settentrioni, a cura di Andrea Cortellessa (2006); Viaggio in Africa, a cura di Viola Papetti (2006, strenna natalizia, fuori commercio). Si aggiungano: Cina e altri orienti (Bompiani, 1974); L'infinita trama di Allah. Viaggi nell'Islam 1973-1987 (a cura di Graziella Pulce, Quiritta 2002). Non ancora raccolti in volume sono i viaggi in Argentina e in Spagna.
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